Declino dell’Italia: è ora di far parlare i numeri

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Sono anni che si sente parlare di un declino italiano, anche se questo discorso viene inframmentato qua e là da annunci su una certa ripresa dell’economia nazionale, e il concetto è, ormai, entrato nel comune sentire ma quanto c’è di vero in questo? Se si facessero parlare i numeri lo scenario reale in cui si trova ad agire il Paese, in realtà, sarebbe ben diverso.

Le statistiche diffuse dalla WTO, infatti, dipingono l’Italia non come uno stato esausto ma come un sistema economico brillante e votato all’export: addirittura, sui dati del 2023, il sesto esportatore mondiale che diventa il quinto se si escludessero i Paesi Bassi, le cui esportazioni riguardano soprattutto le merci in transito dai suoi porti, e il quarto escludendo il settore automobilistico, superando così pure il Giappone.

Quest’ultimo segmento merceologico, infatti, rappresenta tra il 10 e il 15% delle esportazioni di paesi come Germania, Corea del Sud e Giappone ma costituisce solo il 3% del mercato mondiale, come ha ricordato Il Foglio in un recente articolo, e se si considerasse solo il restante 97% del mercato, quindi, il Bel Paese si classificherebbe come il quarto esportatore dietro a Cina, Stati Uniti e Germania. Un attimo…

In più riprese si è parlato del problema salariale italiano poiché le remunerazioni, qui, sono cresciute ben meno che negli altri stati OCSE, addirittura sono le uniche ad essere calate, in termini reali, nel trentennio 1993-2023, giustificando il fatto che il sistema economico sia caratterizzato da una bassa produttività, una competitività non pervenuta e una certa arretratezza dal lato dell’innovazione e allora questo risultato sull’export da dove arriva?

Anche qui giungono in aiuto i dati della WTO che mostrano come, dal 2015 ad oggi, l’economia italiana sia stata la più dinamica e redditizia, dal lato delle esportazioni, di tutti i paesi del G7, con un valore totale cresciuto in dollari, a valore corrente, del 48% a 657mld alla fine dello scorso anno; il che significa che quasi il 30% del PIL sia costituito da esportazioni.

Questo risultato è dovuto soprattutto al fatto che le esportazioni italiane non siano legate a pochi macrosettori ma riguardino un portafoglio merceologico ampiamente diversificato e una platea di “clientela” piuttosto ampia, cosa che, ad esempio, ha permesso di superare l’impasse dovuto alle sanzioni economiche verso la Russia con poche conseguenze se non per poche aziende che lì avevano focalizzato il loro mercato di riferimento.

Si parla, ovviamente, non solo dei settori tradizionalmente considerati trainanti del “made in Italy”, cioè moda, cibo, vino, tabacchi e materiali da costruzione e arredi, ma anche prodotti come macchinari industriali, prodotti da lavorazione dei metalli, come le tubazioni ad esempio, mezzi di trasporto, non solo auto sportive ma anche navi e mezzi aerospaziali, e il settore medicale e dei prodotti per la cura delle persone che, in aggregato, costituiscono circa la metà delle esportazioni.

Da dove nasce, quindi, la comune credenza di un’economia asfittica e arretrata? La verità, che farà storcere il naso a molti, è che questa si formi nella diffusione della microimpresa.

L’eccellenza italiana si vede nelle grandi imprese, perfettamente allineate dal lato di redditività e produttività, a quelle internazionali e in un nucleo di circa 9’000 imprese medio-grandi, tra i 50 e 1’999 dipendenti per intenderci, votate all’export con livelli di efficienza ben superiori alle corrispondenti tedesche (Eurostat ha certificato un valore aggiunto prodotto maggiore di 16’000 euro per addetto a vantaggio delle industrie italiane) e che complessivamente cubano poco meno del 90% delle merci e dei servizi esportati.

Queste imprese, oltre a presentare un’ampia diversificazione merceologica, godono anche di un altro vantaggio competitivo che è dato da un livello tecnologico di sistemi informatici e di produzione molto elevato, avendo sfruttato appieno le agevolazioni per gli investimenti in R&D e per l’adozione di sistemi innovativi come fu previsto dal piano “Industria 4.0” varato nel 2016 dall’allora Governo Renzi.

Tutti questi tasselli sono andati a costruire un percorso di eccellenza competitiva che ha permesso all’Italia di tornare a gareggiare tra i primi concorrenti sui mercati mondiali però… sì c’è un però ed è relativo al mercato interno.

Si accennava prima alla questione salariale, cosa di cui si è parlato più volte su queste pagine, che rappresenta il vero punto debole di tutto l’impianto economico nazionale andando a incidere sia sulla domanda interna sia sugli investimenti privati che, nonostante un tasso di risparmio storicamente elevato, si sono ridotti notevolmente negli ultimi anni.

È evidente che la crescita del sistema (e di qui anche una riduzione in termini relativi del debito pubblico che è il maggior ostacolo alle riforme e agli investimenti in infrastrutture) non possa che passare da un rilancio dei redditi della popolazione e, quindi, detto in maniera brutale alla crescita degli stipendi della popolazione residente.

Non è solo una questione fiscale, che comunque ha la sua importanza, poiché le aliquote medie pagate dai residenti non sono così diverse da quelle pagate all’estero, ma proprio di livello delle remunerazioni che, come si diceva qualche paragrafo fa, è retato al palo nell’ultimo trentennio.

La situazione descritta dalla dinamicità e dalla redditività dell’export italiano si scontra con la bassa produttività e gli scarsi ritorni dati dalla microimpresa che, spesso, non cresce ma sopravvive anche per una mancanza di visione imprenditoriale dei “padroncini” che sono restii agli investimenti sia dal lato tecnologico sia dal lato del personale, tra formazione e salari, usando di fatto l’azienda come “bancomat” e giudicando ogni uscita non un potenziale investimento produttivo ma un mero costo.

Il che, ovviamente, porta a un impoverimento del tessuto economico non potendo, queste micro-imprese sia produttrici di beni sia di servizi, garantire dei valori aggiunti sufficienti a remunerare in maniera efficiente il lavoro e il capitale, per usare delle categorie novecentesche ma, ancora, abbastanza esplicative; il problema vero è che queste piccole aziende rappresentino il principale gruppo datoriale del Paese e da qui la situazione, a volte, scandalosa delle offerte economiche rivolte ai lavoratori che, oggi, non sono più, mediamente, dei meri “ingranaggi” del sistema produttivo ma sono dei professionisti ben più formati, spesso, del loro stesso “capo”.

Il vero vulnus del sistema economico italiano, che ha portato a una crescita complessiva molto contenuta negli ultimi decenni si può individuare proprio qui, non che le micro-aziende siano tutte uguali, intendiamoci, in molte si raggiungono livelli di eccellenza sia a livello di innovazione sia a livello di prodotto ma la maggior parte, alla fine, rappresenta una vera e propria “palla al piede” per l’economia italiana.

Il professor Michele Boldrin, anni fa, affermò in un celebre tweet (quando X ancora si chiamava Twitter, per intenderci) che “[…] la micro e piccola impresa italiana va decimata se si vuole che il paese riparta. Si torna a crescere se e solo se le micro e piccole imprese vengono rimpiazzate da medie e grandi: più produttive, efficienti e innovative. […]” e i “freddi dati” non fanno che confermare la sua tesi.

Quello di spingere all’aggregazione, anche consortile, o favorire la crescita delle realtà imprenditoriali più piccole e dinamiche e non tutelare sacche di inefficienza solo per essere fedeli allo slogan, ormai non più realistico, “piccolo è bello” e tutelare non i lavoratori ma meramente dei posti di lavoro oggi decotti salvaguardando aziende non più in grado di reggersi autonomamente sul mercato è sicuramente un argomento che dovrebbe entrare nell’agenda di governo di un qualsiasi schieramento che voglia che l’Italia torni a crescere in maniera cospicua, il problema è che, forse, elettoralmente non sia un tema molto popolare… soprattutto quando si vive in un clima da campagna elettorale permanente.