Lettera a san Tommaso

Caro Apostolo Tommaso, come ogni anno, 8 giorni dopo la Santa Pasqua, ci imbattiamo nella scena – imbarazzante e commovente – che ti ritrae in quella pagina evangelica, scritta magnificamente da Giovanni.

Tu lo sai, Tommaso: il tuo ricordo genera in noi un certo imbarazzo. Pur essendo tu uno degli Apostoli (e santo), non esiste una grande devozione nei tuoi confronti. Anche a Roma, l'unica Chiesa, dedicata a te, è una costruzione inaugurata il 13 aprile 2013, ma posta nella zona denominata l'Infernetto (il che è tutto dire..). E, tuttavia, dovremmo essere tutti devoti nei tuoi confronti.

Innanzitutto perché – al tuo posto – avremmo fatto molto peggio se ci avessero detto che Gesù era risorto. Ciascuno di noi avrebbe chiesto di mettere il dito nelle ferite dei chiodi e di stendere la mano nel costato del Signore. E anche nel tuo caso, Gesù direbbe a chi è sempre troppo lesto nel giudicarti: “Chi è senza incredulità, scagli per primo la pietra contro Tommaso!”.

Ma c'è un altro motivo per cui dovremmo ringraziarti: grazie alla tua disavventura possiamo imparare cosa sia realmente la misericordia. Essa non è un colpo di spugna, o una pacca sulla spalla del tipo: “Dai, non è successo nulla!”. No. “Metti qua il tuo dito, e guarda le mie mani” ti ha detto Gesù, che poi ha aggiunto: “non essere incredulo”. Cioè: “caro Tommaso io ti vengo volentieri incontro, ma tu, datti una mossa”.

Dopo quell'amorevolissima tiratina d'orecchie – “non essere incredulo, ma credente” – fra l'altro tu non ti sei offeso, non ti sei difeso, non ti sei nascosto dietro un dito. Sei caduto in ginocchio e hai pronunciato cinque parole, le più grandi di tutto il Vangelo: “Mio Signore e mio Dio“. Tu sei stato il primo ad affermare quello che tanti Cristiani moderni, mai si sognerebbero di dire: che Gesù risorto è il Figlio di Dio, l'unico vero Dio. Le ultime parole del Vangelo di Giovanni – almeno nella redazione più antica del testo – erano proprio le tue: “Mio Signore e mio Dio”. Se vogliamo essere veramente cattolici dobbiamo appropriarci di quelle cinque parole: “Mio Signore e mio Dio”. Senza di esse, tutto il resto è vaniloquio. 

Forse per un paio di millenni ancora continueremo a considerarti un incredulo imbarazzante, eppure quella tua splendida professione di fede continuerà a essere ripetuta da noi sacerdoti nel momento più santo della Messa – la consacrazione – quando viene innalzato il pane transustanziato nel Corpo di Cristo e il calice ricolmo del Suo Sangue.

Permettici però un piccolo appunto, Tommaso: dov'eri la sera di Pasqua, quando Gesù si mostrò vivo agli Apostoli? Perché non eri con gli altri nel Cenacolo? Qualunque sia stato il motivo della tua assenza, ci spiace, ma non avresti dovuto. Perché è solo allo spezzare il pane che si riconosce il Risorto. Chi diserta il Cenacolo, chi si assenta dalla Santa Messa, rischia di scivolare nell'incredulità, come te.

Perdonaci questo appunto, Tommaso, ma dalla tua avventura abbiamo capito che possiamo anche credere senza vedere (come ti ha detto il Risorto), ma non possiamo fare Pasqua fuori dal Cenacolo, perché il Risorto ci aspetta ogni volta che durante la S. Messa spezza il pane e dice: “questo è il mio Corpo – risorto – che è dato per voi”. Anche per questo, Tommaso, dobbiamo ringraziarti.