Tra Mao e Papa Francesco: ritratto della Cina 70 anni dopo

Cadde anche di martedì il 1 ottobre 1949, quando Mao Zedong promise a una nazione in stallo dopo il conflitto mondiale, di porsi come timoniere della sua rinascita. Settant'anni fa, non esisteva la Repubblica Popolare Cinese quale potenza in estrema ascesa, ma uno stato semifeudale, immenso e reduce dagli scontri civili. Oggi Pechino è blindatissima, mentre si appresta la liturgia di una narrazione di una potenza mondiale. Un'ascesa che, se comparata a quel lontano 1949, sorprende. L'analista Alex Neill, per esempio, ha dichiarato all'emittente britannica BBC che con tutta probabilità verrà dispiegato, in occasione della parata, il missile balistico intercontinentale DF-41: un simbolo della potenza militare cinese, ancora più esemplare se si pensa che, settant'anni fa, sulla Città Proibità sfrecciò una flotta di appena diciassette aerei.

Ombre cinesi

Riuscirà la parata ad eclissare i nodi da sciogliere dell'impero cinese, in ultimo quella spinosa di Hong Kong e le sue velleità indipendentiste? L'obiettivo primario della parata di Pechino è far risaltare l'evoluzione che ha reso la Cina un Paese in ascesa veloce, sottolineando cioè la ricetta quasi “miracolosa” di una potenza che è passata da momenti bui – come la Grande Carestia e la Rivoluzione Culturale maoiste – , all'affermazione di una superpotenza che prolifera in tutto il mondo grazie a una strategia senza precedenti e a un dispiegamento infrastrutturale che non ha concorrenti – l'ultima manifestazione è il colossale aeroporto di Pechino Daxing.

Settant'anni di timonieri

A settant'anni di distanza, ha senso chiedersi dove inizia e finisce un'analisi storiografica? Nel caso della Repubblica Popolare Cinese, è legittimo. A Mao Zedong, soprannominato appunto “Il Grande Timoniere”, va il merito di aver cambiato il volto della Cina conferendole le caratteristiche di quello che sarebbe stato chiamato socialismo cinese. Ma se al capostipite del movimento Pechino rende onore per aver avviato la rivoluzione, è sotto Deng Xiaoping che la Cina passò a una progressiva transizione dal comunismo al capitalismo. Sotto Deng Xiaoping, difatti, la Repubblica Popolare Cinese riconquistò una posizione centrale sulla scena mondiale, imponendosi come superpotenza economica. Oggi alla guida della Rpc c'è Xi Jinping, un leader ammantato di un'autorità analoga a quella di Mao Zedong. C'è grande attesa per il discorso, in cui il leader traccerà un bilancio di settant'anni di crescita inarrestabile. Ma Pechino, proprio per sua natura, vive nel presente guardando al futuro e, nello specifico al 2049: entro quell'anno il Partito Comunista punterà al “Risorgimento della nazione”: una sfida non facile, perché prevederà una stabilità geopolitica che, considerando le fratture interne e quelle esterne, sarà sempre più ardua da preservare.

L'accordo tra Santa Sede e Cina

La proclamazione della Repubblica Popolare Cinese ebbe i suoi riflessi anche nei rapporti con la Santa Sede. Quando nel 1951 l'internunzio Antonio Riberi lasciò la neonata Repubblica, tutti videro nell'episodio una rottura fra le velleità di Mao Zedong e la missione evangelizzatrice della Santa Sede in Estremo Oriente. Veniva a profilarsi, così, un destino cupo per un Paese oggetto di attenzione dei missionari sin dai tempi del gesuita Matteo Ricci, l'unico occidentale ad ottenere il privilegio di essere sepolto nella Città Proibita. Le relazioni tra i due Paesi dovettero innestarsi in una storia – quella con il Movimento culturale dei giovani del 1919 – piuttosto complessa. Come ha scritto il professore Agostino Giovagnoli, fra i massimi esperti sul tema e curatore del volume L'accordo tra Santa Sede e Cina, “durante la Rivoluzione culturale, i cattolici, come tutti i credenti, vissero anni molto difficili in Cina”. È il periodo in cui Pechino si affaccia nello scenario internazionale con una semantica geopolitica differente, investendo nello sviluppo economico e modellando su di esso la nuova identità. In quegli anni, fu istituita l'Associazione patriottica dei cattolici cinesi, una stuttura che, pur nella sua natura controversa, consentì la persistenza di un'enclave cristiana e cattolica in un Paese che, per sua natura, si definiva politicamente ateo e areligioso.

Un graduale avvicinamento

Come ricorda mons. Claudio Maria Celli, per anni Sottosegretario ai Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana, “il cammino della Chiesa in Cina lo si deve a papa Giovanni Paolo II e i cardinali Casaroli e Silvestrini”. Celli parla di un graduale avvicinamento della Chiesa in Cina, che non è scevro di una seria complessità. Fu proprio il pontificato di Wojtyla, il pontefice associato al crollo del blocco sovietico nell'Est-Europa, a rappresentare una discontinuità rispetto agli anni Cinquanta e alla Rivoluzione culturale, tant'è che alcuni parlarono di “primavera cinese”. Celli ricorda l'infaticabile lavoro dell'allora Segretario di Stato, card. Agostino Casaroli che, in parallelo al viaggio di Papa Giovanni Paolo II a Manila, tenne una conferenza stampa congiunta con il vescovo di Guangzhou, Deng Yiming. In un secondo momento, però, lo stesso prelato fu protagonista di una brusca rottura dei contatti con la Santa Sede, dopo aver ricevuto la nomina di arcivescovo dallo stesso Giovanni Paolo II. Da quel momento, nelle autorità della Repubblica Popolare Cinese cominciò a profilarsi il timore di un'ingerenza della Santa Sede di natura politica. La questione cattolico-cinese può essere considerata figlia della Guerra Fredda, dunque? Per mons. Celli, “non si tratta di Guerra Fredda, ma di due mondi incontratisi in uno scenario mondiale”. Nel contesto bilaterale, sicuramente ha avuto un suo peso la lacerazione fra la Chiesa “ufficiale”, cioè approvata dalle autorità cinesi, e quella impopriamente denominata “clandestina”. Sotto quest'aspetto, Roma non ha mai voluto operare una rottura definitiva con Pechino.

Strappi e cuciture

Si ricordano due episodi che hanno esercitato la loro influenza nei rapporti tra i due Paesi: le proteste studentesche in piazza Tian'anemen (1989) e la proclamazione dei martiri cinesi (2000). Per quanto riguarda la manifestazione studentesca, la Cina, che per la prima volta si trovò a fronteggiare una manifestazione studentesca di massa, cominciò a vedere nella figura di Papa Giovanni Paolo II una minaccia alla sua integrità politica. I rapporti s'incrinarono ulteriormente quando, in occasione del Giubileo del 2000, Papa Giovanni Paolo II canonizzò 120 martiri cinesi: l'episodio irritò non poco le autorità cinesi, poiché fu scelta come data della proclamazione proprio la data simbolica del primo ottobre. Le relazioni bilaterali furono sospese, sebbene l'allora arcivescovo di Marsiglia, il card. Roger Etchegaray, si recò in viaggio in Cina e venne accolto come “alto funzionario di una grande religione occidentale”: “Il problema sconcertò il Papa – ricorda Andrea Riccardi, fondatore dalla Comunità di Sant'Egidio – e da qui venne l'idea di scrivere un articolo su L'Osservatore Romano“. 

Una fase nuova

Come ricorda Giovagnoli, con papa Benedetto XVI “il rapporto tra le due parti entrò in una fase nuova”, rappresentata compiutamente dall'istituzione della Commissione per la Chiesa cattolica in Cina che, con funzione prettamente consultiva, venne creata per favorire il dialogo con le autorità cinesi. Il confronto tra i due Paesi ha raggiunto un punto di svolta con l'Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei Vescovi, con data 22 settembre 2018. Il contenuto dell'accordo è tuttora segreto, ma il suo obiettivo è dismettere una relazione di natura esclusivamente politica, puntanto su una cultura del dialogo di cui Papa Francesco ne è strenuo rappresentante. La fiducia è la parola chiave per comprendere l'accordo: a un'opinione che imputa alle due parti l'azione di rivendicazione delle rispettive prerogative – la nomina dei vescovi da parte della Santa Sede e il controllo delle nomine da parte di Pechini – l'accordo ha, viceversa, implicato un dialogo più fitto e comportato la rinuncia a una logica di scontro. Come ricorda Giovagnoli, “il merito di papa Francesco è stato quello di aver interrotto quell'insopportabile, plumbea continuità” che aveva caratterizzato gli anni precedenti. Alle radici dell'accordo tra i due Paesi – la cui natura rimane “provvisoria” – non v'è solo una complicata esperienza di dialogo. Come ricorda Andrea Riccardi, “se noi oggi possiamo parlare dell'accordo, lo dobbiamo alla fedeltà nella fede dei cattolici cinesi“. Quella “porta aperta” fra i due Paesi reca il volto di una Chiesa che ha cercato di mantenere viva la sua fede, a prescindere dagli esiti, che porta, fra i tanti, i volti del cardinale Ignazio Gong Pinmei – vescovo di Shanghai e in prigione dal 1955 – e di Liu Bainian, segretario storico dell'Associazione Patriottica dei cattolici cinesi.