Quelle tre cose che ci chiede Francesco

Ci sono i grandi atti, che fanno titolo sui media e offrono materia interessante alle analisi degli specialisti – un concistoro, l’enciclica Fratelli tutti, il convegno sulla “Francis economy”. Ma poi il semplice fedele, e forse non solo lui, è in un Francesco apparentemente “ordinario” o addirittura “minore”, che trova le conferme più persuasive della propria fede. È lì – nella ordinarietà di un’omelia, nella catechesi del mercoledì o nella meditazione domenicale alla finestra del palazzo apostolico – che al cristiano comune, ascoltando parlare il vescovo di Roma, capita di sentire il “cuore battere forte in petto” come accadeva sulla via di Emmaus a quei discepoli sconfortati che non avevano riconosciuto subito il Signore. Lo abbiamo visto anche ieri, nell’angelus domenicale, recitato al termine della eucarestia celebrata con i nuovi 13 cardinali creati nel concistoro di sabato scorso. Poche parole, prima di congedarsi dai fedeli.

Cerchiamo di ricavare del bene anche dalla situazione difficile che la pandemia ci impone: maggiore sobrietà, attenzione discreta e rispettosa ai vicini che possono avere bisogno, qualche momento di preghiera fatto in famiglia con semplicità. Queste tre cose ci aiuteranno tanto: maggiore sobrietà, attenzione discreta e rispettosa ai vicini che possono avere bisogno e poi, tanto importante, qualche momento di preghiera fatto in famiglia, con semplicità”. La trascrizione delle parole, su carta (o su computer) non rende tutto l’impatto che hanno avuto. Un conto è leggere un testo e un altro conto è guardare in volto chi lo sta pronunciando dal vivo: si capisce subito se è convinto di ciò che dice, mentre il tono di voce rivela in modo inequivoco il sentimento che ispira le sue parole; se un “dovere di predica” o una simpatia, un affetto vero per gli uomini e le donne che lo stanno ascoltando.

Tre “cose” le chiama il papa. Concrete. Tre piccole cose concrete, che tutti i fedeli, se vogliono, possono vivere in questo tempo difficile. E viene subito da immaginare come sarebbe diversa la Chiesa, e un po’ anche il mondo, se tutti noi che ci professiamo cristiani provassimo a viverle davvero, queste tre cose, nelle settimane che ci separano dal Natale. Cominciando da me, che sto scrivendo questa nota.

Parole semplici quelle di Francesco ma ognuna preziosa nella sua sapiente concretezza. Una sobrietà “maggiore” dice, rispetto allo stile di vita consueto: non pretende una povertà assoluta che non sarebbe né realistica né giusta per tutti; “maggiore”, è possibile, per chiunque: una forma di libertà dal possesso e anche di rispetto per chi non può permettersi di comprare anche i beni essenziali. Un’attenzione ai vicini di casa, inoltre, “discreta e rispettosa”: il contrario di un’invadenza, che finirebbe solo con l’umiliare le persone in difficoltà, che magari si vergognano (comprensibilmente) di rivelare il loro bisogno, la loro improvvisa caduta sociale causata dalla pandemia; un’attenzione rispettosa, ognuno saprà trovare le parole o le circostanze giuste per un dialogo e per un aiuto generoso e discreto.  “Qualche” momento di preghiera, infine, (dice “qualche”, perché noi non siamo monaci di clausura) fatto “in famiglia” (innanzitutto in famiglia, non sul web, ci stiamo già così tanto sui social), e “con semplicità” perché non c’è bisogno di inventare chissà quale formula (ci sono le vecchie eterne Ave Maria alla portata di tutti e ci sono le preghiere brevi ma esaurienti, come quella giaculatoria consigliata sempre dal papa ieri durante l’omelia a san Pietro per questo tempo di Avvento: “vieni Signore Gesù”).

Ogni papa ha il suo dono. Personalmente il dono che amo di più in papa Francesco è proprio questo. La concretezza della sua predicazione, il suo rinviare a Gesù, al mistero affascinante di Cristo, come fosse un nostro contemporaneo, vivo oggi in mezzo a noi (ed è vivo in mezzo a noi oggi, nella grazia dei sacramenti e ancor più nella grazia di tante testimonianze “discrete e rispettose”). L’arte della predicazione; lo abbiamo visto nelle omelie di santa Marta durante il primo lockdown, credo che mai le parole di Francesco abbiano fatto breccia nei nostri cuori e nelle nostre teste come in quei lunghi giorni.

Capisco bene che tutto questo di cui stiamo trattando – comprese le tre cose consigliate ieri dal papa ai cattolici di tutto il pianeta – possa interessare poco il media system e non ne faccio colpa a nessuno. Viviamo in un mondo postcristiano, di fatto. Eppure, sono convinto che la cosa più interessante del cristianesimo sia proprio Cristo. Anche per un laico, che ama la vita e non si accontenta di risposte prefabbricate alle mille domande della vita, credo sia più interessante Cristo, di mille diatribe ecclesiastiche. Su questo punto, da laico, pungolerei di più gli uomini di Chiesa, vescovi, cardinali e papi compresi: “crederei nel Salvatore se voi aveste una faccia da salvati”, infieriva Friedrich Nietzsche. Questo Cristo dei Vangeli è una favola o una presenza incontrabile oggi? Come può, se può, cambiare in meglio la mia vita?

Sento arrivare un’altra obiezione. Qui si rischia la “scelta religiosa”. Qui si vuole confinare la fede nella sfera spirituale, lasciando tutto il campo della vita pubblica ai nemici, ai laicisti, alla sinistra, etc. Tutto il resto – la cultura, la società, l’economia, la politica – non ci deve dunque interessare? Certo che sì. Al Papa giustamente interessano l’economia e la politica, perché gli interessano gli uomini e le donne che abitano questo mondo, specialmente le persone più deboli, messe ai margini dal potere: le ingiustizie “gridano vendetta al cospetto di Dio” (non lo dice Marx, lo insegna il catechismo cattolico di quell’antimodernista di Pio X). Ma il modo in cui il cristianesimo ha cambiato il mondo nei primi secoli e può contribuire a renderlo più abitabile anche oggi segue un percorso assolutamente originale rispetto a ogni rispettabile strategia umana. Come nota Francesco nel suo contributo inedito al volume “Il cielo sulla terra” (Libreria editrice vaticana), appena pubblicato: “Un pensatore francese degli anni Trenta, Emmanuel Mounier, diceva che l’influsso importante del cristianesimo sulla civiltà europea è stato più un ‘effetto collaterale’ della testimonianza dei primi cristiani che un piano preordinato; più la conseguenza gratuita di una fede vissuta semplicemente che l’esito di un programma culturale-politico elaborato a tavolino: C’è sempre tra l’inizio e gli effetti una sorta di percorso obliquo, sembra sempre che il cristianesimo produca effetti sulla realtà temporale come per sovrappiù, quasi talvolta per distrazione”. È quando il cristianesimo si radica nel Vangelo che dona il meglio di sé alla civilizzazione: infatti il cristianesimo dà di più all’agire esteriore degli uomini quando cresce in intensità spirituale, piuttosto che quando si perde nella tattica e nella gestione.”