Ricordare la strage di via D’Amelio, la uccisione di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta, non risponde solamente a un debito della memoria. Sollecita una verifica e una valutazione di quanto è stato fatto nei trenta anni trascorsi da allora per continuarne l’opera, un impegno individuale a raccoglierne e attuarne l’esempio civile e professionale, una azione collettiva e istituzionale per perseguire gli obiettivi di legalità e depurazione sociale dalla criminalità mafiosa.
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, legati da una profonda amicizia oltre che dal comune lavoro, assieme hanno innovato il metodo delle indagini nei confronti della mafia, ricostruendone la struttura, le modalità organizzative e di decisione della strategia criminale e delle azioni da compiere, la esigenza di non limitarsi a ricostruire isolatamente singoli reati per colpire solo la bassa forza degli esecutori, ma la necessità di avere un quadro d’insieme che integrasse la conoscenza di tutti gli elementi raccolti nelle diverse indagini, che consentissero di conoscere la organizzazione, i livelli e le modalità di decisione. Ad essi pure si deve avere sottolineato l’importanza di seguire le tracce del denaro, del suo riciclaggio, della contiguità con persone o attività apparentemente insospettabili. Tutto questo sulla base di una professionalità riconosciuta e sperimentata, che ha basato le indagini sulla ricerca, la raccolta e la valutazione delle prove dimostrative dei reati perseguiti. A questo si aggiunga una solidità morale ed un impegno personale straordinari, uniti alla capacità di suscitare, integrare e guidare il lavoro di gruppo.
I risultati non sono mancati. Ne sono dimostrazione la tenuta delle prove nel maxiprocesso di Palermo, le condanne confermate nei successivi gradi di giudizio, il duro colpo inferto alla mafia ed alla solidarietà interna ad essa, rotta da chi essendone partecipe aveva rivelato elementi essenziali per ricostruirne la organizzazione e le decisioni criminali.
Entrambi, Falcone e Borsellino erano ben consapevoli che la mafia avrebbe cercato in ogni modo di eliminarli, avvertendo quanto il loro impegno e il loro lavoro costituisse il più serio pericolo per la organizzazione criminale. Dopo la strage di Capaci, che aveva colpito con una clamorosa azione terroristica Giovanni Falcone, Paolo Borsellino era certo che sarebbe toccato a lui. Avvenne 57 giorni dopo, il 19 luglio 1992, con un’auto bomba fatta esplodere in via D’Amelio, dove si era recato per fare visita alla madre.
Che cosa sia stato fatto, da allora, per fare tesoro dell’impegno e del sacrificio di Falcone e Borsellino, è storia giudiziaria, e non solo, del nostro Paese. La ricostruzione delle reazioni nella società e delle istituzioni è complessa e richiederà la conoscenza di molti risvolti, raccolti nel tempo e valutati con l’approfondimento e la serenità di giudizio dello storico.
Il ricordo impone un impegno collettivo da assumere oggi, che riguarda anzitutto la magistratura. Per essere degna di quell’esempio, depuri sé stessa dalle scorie, manifesti la professionalità, la passione civile e lo spirito di servizio dei migliori testimoni della sua alta funzione di giustizia. In un più ampio contesto, tutte le istituzioni siano impermeabili alla illegalità e la intera compagine sociale non si chiami fuori rimanendo nell’indifferenza, se non quando nella connivenza. Sul piano individuale il ricordo non sia celebrativo di una ricorrenza, ma sia occasione di un rinnovato impegno personale a trarre esempio professionale e umano da quelle eccezionali figure.
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