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Mantovano (Centro Studi Livatino): “L’eredità viva e attuale di Falcone e Borsellino”

Sono passati appena 57 giorni da quando, per volontà di Cosa nostra, una carica esplosiva con una potenza pari a cinque quintali di tritolo ha squarciato il tratto dello svincolo di Capaci dell’autostrada A29, tra Palermo e Mazara del Vallo, poco prima delle sei del pomeriggio, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, il magistrato Francesca Morvillo – moglie di Falcone –  e gli agenti della sua scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, che un altro attentato, sempre per mano di Cosa nostra, stavolta nel capoluogo di regione isolano, spezza le vite del giudice Paolo Borsellino e di cinque componenti della sua scorta, tra cui il primo agente di polizia donna a farne parte, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. In quella strage avvenuta esattamente tre decenni fa, con la detonazione di una miscela di plastico esplosivo e TNT al numero 21 di via Mariano D’Amelio, ci fu un solo sopravvissuto, l’agente Antonio Vullo, che stava parcheggiando l’auto della scorta. Un’altra ferita non ancora rimarginata nella storia del nostro Paese. Da lì trent’anni di ricerche di verità e giustizia, misteri – come la denuncia della sparizione della famosa “agenda rossa”, il taccuino che il magistrato palermitano portava sempre con sé –, un depistaggio, quattro processi. La società italiana, nel tempo, ha dato una sua risposta a quanto accaduto in quella tragica primavera-estate di tre decenni fa, con l’attivo fermento di tante testimonianze e tanto impegno civile per non dimenticare mai i caduti nella lotta contro la mafia e il loro esempio umano, etico e morale, che ha irrigato e continua a irrigare il sempreverde campo della legalità.

L’intervista

A trent’anni da quel tragico 19 luglio 1992, appena 57 giorni dopo la strage di Capaci, Interris.it ha intervista Alfredo Mantovano, magistrato e vicepresidente del “Centro Studi Rosario Livatino”.

Chi era, Paolo Borsellino?

“È stato un modello di coerenza con un ideale professionale, etico e di fede, fondato sulla convinzione di una missione da compiere e di un giuramento da non tradire. Chi era Borsellino  traspare dal discorso da lui tenuto nella veglia di preghiera, a Palermo, un mese dopo la morte di Giovanni Falcone, in quello che è stato con ragione identificato come il suo testamento spirituale: ‘Nessuno ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta (…) Molti cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia nelle indagini concernenti la morte di Falcone. (…) sono morti per tutti noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro, e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso i benefici che possiamo trarne (…); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo (…)’”.

 

Ha un ricordo personale del 19 luglio 1992?

“In tanti davamo per scontato che dopo Capaci Borsellino avrebbe proseguito – anche in virtù della sua nomina a Procuratore della Repubblica di Palermo – il lavoro iniziato da Falcone, e lo stava già facendo. La notizia della sua morte fu un colpo durissimo: al dolore per l’uccisione di un uomo capace e coraggioso, che avevo avuto modo di conoscere e di apprezzare, e di chi era addetto alla sua tutela, si aggiungeva l’interrogativo drammatico se mai si fosse riusciti a venirne a capo. Era tardo pomeriggio di domenica, mi trovavo a mare con la famiglia, e con mia moglie ci trovammo affranti e a disagio, come se non fosse giusto essere lì mentre Borsellino era stato fatto a pezzi”.

La stagione stragista portò addirittura la guida del pool antimafia Antonino Caponnetto a dire “È tutto finito!”. Cosa significarono Capaci e via d’Amelio e cosa successe dopo nella lotta alla mafia? Si misero in campo nuovi strumenti investigativi e di contrasto al fenomeno? Con quali risultati?

“Cosa nostra, in particolare i corleonesi che in quel momento erano arrivati al suo vertice, fecero male i calcoli. Quelle stragi, che nell’immediato provocarono non soltanto in Caponnetto quella comprensibile reazione, furono seguite dall’adozione di provvedimenti attesi da anni: l’estensione ai mafiosi del c.d. 41 bis, il regime detentivo duro, perché i boss arrestati smettessero di dare ordini dall’interno delle carceri; il varo della Procura nazionale e delle 26 Direzioni distrettuali antimafia, per un più efficace coordinamento delle indagini e dei processi di criminalità mafiosa, prima parcellizzati in 160 Procure ordinarie; norme più incisive per colpire i patrimoni di origine illecita. Le disposizioni sui collaboratori di giustizia, per acquisire informazioni dall’interno dei clan, erano state introdotte qualche mese prima. Non furono però soltanto Governo e Parlamento a voltare pagina con decisione: l’intera Nazione comprese che non era più tempo di incertezze e di zone grigie”.

 

A punto siamo nella ricerca della verità sulle morti di Falcone e Borsellino?

“I giudizi celebrati su Capaci e via D’Amelio hanno permesso, certamente quanto alla prima, con qualche zona d’ombra per la seconda, di individuare e condannare mandanti ed esecutori. Quegli anni terribili hanno però lasciato senza risposta non pochi interrogativi: il tempo che scorre e la scomparsa di quasi tutti i protagonisti di quella stagione non aiutano a fare chiarezza”.

A trent’anni di distanza dal quel tragico 19 luglio 1992 – così come da quel 23 maggio – qual è l’eredità di Falcone e Borsellino?

“È un’eredità viva e attuale, a condizione che gli eredi vogliano fruirne. Fra i tanti insegnamenti che hanno lasciato, vi è anzitutto il metodo seguito per istruire il primo maxiprocesso contro Cosa Nostra, celebrato a Palermo a partire dal 10 febbraio 1986, un salto di qualità nel modo di impostare indagini e giudizio. Pur essendo gli imputati centinaia, l’approccio di Falcone e di Borsellino è stato il contrario di una valutazione della prova massiva. Nonostante vi fosse l’esigenza di acquisire la visione di quadro di Cosa nostra, e quindi di non spezzettare il materiale probatorio, essi furono scrupolosi nella ricostruzione delle singole responsabilità. Per questo, al momento di predisporre l’ordinanza di rinvio a giudizio che avrebbe costituito l’ossatura del processo di Palermo, trascorsero mesi in isolamento volontario, nell’edificio della Polizia penitenziaria all’Asinara, per dedicarsi all’analisi accurata di migliaia e migliaia di carte processuali. Hanno mostrato doti – professionalità, attenzione, dedizione – oggi drammaticamente carenti. Falcone riassumeva il suo ‘metodo di lavoro’ in ‘pochi concetti: dobbiamo rassegnarci a indagini molto ampie; a raccogliere il massimo di informazioni utili e meno utili; a impostare le indagini alla grande agli inizi per potere poi, quando si hanno davanti i pezzi del puzzle, costruire una strategia’. E ancora, a conferma del rigore e della cura nell’impostazione del processo: ‘occorre procedere con la massima cautela e (…) verificare a ogni passo il confine tra il noto e l’ignoto e non sperare mai che altri possano colmare le nostre lacune’. Sono insegnamenti validi oggi, se possibile, più ancora di quando sono stati impartiti: ‘(…) ho sempre evitato di scambiare ipotesi di lavoro con la realtà. Ho sempre saputo che molte di esse, benché meritevoli di essere esplorate, erano del tutto al di fuori delle mie possibilità e delle forze a mia disposizione. Ho sempre evitato di prendere iniziative che non avessero qualche ragionevole possibilità di successo’”.

Quali sono i modi giusti per ai giovani e ai giovanissimi raccontare cos’è la criminalità organizzata?

“Abbandonando letture ideologiche e datate, e agganciandosi ai dati concreti, a cominciare dalle sentenze che hanno definito giudizi importanti: spesso contengono ricostruzioni di quadro accessibili ai non addetti ai lavori (un buon insegnante potrebbe illustrarne i contenuti). Apprezzando il lavoro svolto da tutte le istituzioni italiane dopo le stragi, soprattutto nel ventennio 1992-2011, che ha permesso di conseguire obiettivi inimmaginabili. Vi è tanto ancora da fare, ma la consapevolezza che non si è all’inizio può spingere a fare di più e meglio”.

Lorenzo Cipolla

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