Intervento

Mattarella, Condé e i partiti refrattari

Sembra stia fermo, immobile, a guardare dalla finestra le contorsioni altrui: quasi non fosse affar suo. Sergio Mattarella da sempre fa così: lascia andare il gioco, ruotare la palla e poi vinca il migliore. Lo disse fin dal primo momento, dal primo discorso di insediamento alla Camera, che sarebbe stato arbitro imparziale, ma a una condizione: la correttezza del gioco in campo. Ecco il perché dell’unico intervento finora registrato, dall’inizio di questa crisi di cui non si capisce bene né lo scopo, né il costrutto. Quando Mario Draghi si è presentato al Colle a dire che se ne sarebbe andato, lui ha parlamentarizzato la crisi. Vale a dire: gli ha detto che il referente costituzionale del governo sono innanzitutto le Camere che gli hanno votato la fiducia. A loro si presenti, il premier dimissionario, e si veda come stanno veramente le cose. Cinque giorni per pensarci basteranno.

Ora che i cinque giorni sono quasi scaduti, il Capo dello Stato si prepara a tirare le somme. Non che abbia già deciso cosa fare: anche il Gran Condé dormì tutta la notte prima della battaglia di Rocroi, ma era per l’appunto l’ultima notte e lui le somme aveva potuto ormai tirarle. La crisi italiana invece è ancora sull’ottovolante, difficilmente la nebbia si diraderà nelle prossime ore. Al momento, pertanto, Mattarella guarda e ascolta (più i notiziari che non gli interlocutori, dal momento che al Quirinale nessuno si appalesa perché tanto verrebbe tenuto fuori della porta). Lascia che i partiti e i loro leader battano la testa contro i muri che costantemente innalzano, perché prima o poi o qualcuno cederà oppure tutti dovranno andare a elezioni che nessuno, a parte Giorgia Meloni, veramente vuole. Non le vuole Salvini come non le vuole Berlusconi, perché con questa legge elettorale pasticciata finirebbero nelle graziose fauci della Meloni. Non le vuole il Pd, sorpreso a metà del guado mentre sognava un campo largo che invece è il Campo dei Miracoli. Non le vuole nessuno al centro, perché di sei mesi almeno c’è bisogno per superare gli egotismi e le confusioni concettuali. E, da ultimo, nemmeno Di Maio le vuole: ha di fronte a sé l’occasione della vita, quella di creare un soggetto politico autonomo, ma qui vale quel che si è appena scritto di Calenda e Renzi e Toti.

Detta così, la soluzione parrebbe semplice; basterebbe una doppia scissione post-grillina e allora tutti contenti, ognuno con il suo scalpo. Sarebbe facile ma non è, perché il terreno troppo inaridito diventa refrattario all’acqua e la politica arida di idee è refrattaria, inevitabilmente, al ragionamento. È ben possibile che il treno messo in corsa da Draghi non riesca a fermarsi, e compulsivamente finisca sul binario morto delle elezioni. Succederà se Mattarella, che ascolta e vede, cogita e medita ma alla fine decide, dovesse arrivare alla conclusione che la legislatura è ormai morta per consunzione, e la consunzione è quella dei partiti che la animano. Allora sì che il Quirinale, da Costituzione, interverrebbe con lo scioglimento delle Camere. Un passaggio traumatico, il più possibile da evitare dato il momento, ma se si è refrattari al ragionamento, ben poco altro resta da fare.

Sarebbe davvero un bel problema, perché si andrebbe alle urne nel momento sbagliato, con una legge elettorale che ci porterebbe in un men che non si dica all’instabilità attuale, con un centrodestra che pur vincente difficilmente sarebbe in grado di gestire in concordia la cosa pubblica. Ma qui i poteri del Quirinale sono realmente circoscritti, se il popolo è sovrano pur nei limiti della Costituzione figuriamoci quelli del Presidente della Repubblica.

Tant’è. Anzi, è la crisi di questa fase storica della Repubblica. Non riesce a sfogare in un rinnovamento, quindi si trascina in una febbre quartana che indebolisce tutto l’organismo, e infatti è peggio. Sei mesi basterebbero, invece, per lo meno a riscrivere le regole del gioco a cominciare dalla legge elettorale, per dare nuove energie e forme di partecipazione ad un Paese che non registrava una tale stanchezza nei confronti della politica dal 1992. Qualche volta però si è refrattari non solo al ragionamento, ma anche al semplice studio della Storia.

Nicola Graziani

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