Minacce e libertà di stampa

Nei libri sulla “storia della cronaca” campeggiano le foto della strage di San Valentino, Chicago 14 febbraio 1929; un episodio cruento testimoniato in tutta la sua crudezza dalle immagini dell’epoca. Oggi quel tipo di giornalismo non sarebbe più ammesso: i filtri della privacy e delle autorizzazioni governative ne impedirebbero la pubblicazione. Ma se da una parte il mestiere di chi fa informazione è oggi giustamente condizionato dai limiti imposti da leggi che cercano di tutelare le persone e i loro familiari, va anche detto che spesso quegli stessi limiti vengono utilizzati da chi ha in mano il potere per proteggere se stesso e le proprie malefatte. E’ il caso delle intercettazioni, delle quali è vietata la pubblicazione. Che poi i giornali rischino di andare oltre la legge è una scelta che spesso viene pagata a caro prezzo, così come va detto che alcune intercettazioni vengono pubblicate al di là dell’oggetto della notizia ma solo perché pruriginose o peggio per colpire a latere qualcun altro non invischiato nell’inchieste stessa di cui si parla. Ma questa è un’altra storia.

Il concetto invece per cui il potere preserva se stesso è venuto fuori anche nella recente modifica fatta in Senato rispetto al carcere per i giornalisti in caso di diffamazione a mezzo stampa. Salutata da tutti come una vittoria, è al contrario una grande cortina di fumo sul reale problema della libertà di stampa. Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti ha detto senza remore che “il Senato della Repubblica ha perso la grande occasione di tutelare il diritto dei cittadini ad avere una informazione libera, rispettosa della verità e delle persone. Si è limitato, per non incorrere nelle sanzioni dell’Europa, ad eliminare il carcere per i giornalisti. Ma l’insieme delle norme mantiene tutto l’effetto intimidatorio con la previsione di una sanzione che può arrivare a 10.000 euro in caso di un errore. L’equivalente del compenso di 1.000 o più articoli per migliaia di giornalisti”.

Il fatto che un giornalista non possa andare in galera, infatti, non significa che sia tutelato rispetto ai poteri forti; quest’ultimi possono proporre querele temerarie (senza cioè avere in mano i documenti che smentiscano quanto scritto) anche chiedendo milioni di euro come risarcimento, mettendo così il giornalista nella condizione di abbandonare un’inchiesta per non rischiare che una virgola sbagliata o un aggettivo di troppo possa abbattersi sulla vita privata mettendo a rischio la casa e la famiglia. Vere e proprie minacce, dunque. Si parla di “sottinteso sapiente” e “accostamento suggestivo” per indicare non la falsità di ciò che si scrive ma una descrizione volta ad andare oltre come giudizio (pur se non espresso) rispetto al contenuto della notizia. Insomma: impossibile muoversi senza incappare in qualche tipologia di reato, se la parte “lesa” ne vuole approfittare.

Basterebbe stabilire una cosa: chi propone la querela, in caso di sconfitta (conseguente al fatto che il quotidiano proponente la notizia racconta la verità) va condannato a pagare quanto ha chiesto come risarcimento; persino la metà sarebbe un buon deterrente. Ma su questo punto nemmeno si apre la discussione: troppo pericoloso per politici, banchieri, finanzieri ecc. rischiare di dover pagare quelle cifre che però chiedono come ristoro. Meglio lasciare le cose come stanno, e far lavorare i propri uffici legali inseriti già nel budget annuale.

In questo contesto, tra editori con interessi privati e un mondo politico-finanziario con interessi propri, pensare all’informazione come un diritto rivolto alla gente comune è un’utopia. E i lacci che vengono messi al mondo dell’informazione servono per evitare che qualcuno possa anche solo pensare di uscire dal sistema. Per fortuna ci sono iniziative libere che rischiano in proprio, ma ci vuole coraggio e una buona dose di incoscienza. Niente carcere, dunque, ma anche niente libertà.