Il messaggio profondo della “Pacem in terris”

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L’enciclica “Pacem in terris”, nel suo 60° anniversario, ci consegna una lezione indelebile, in un contesto di guerra e di deriva della democrazia in forme populiste, oligarchiche, nonché del deterioramento dei suoi strumenti partecipativi quali sono ad esempio gli attuali partiti, una rielaborazione personalista e relazionale delle principali categorie politiche. Ciò che è importante sottolineare è che attraverso una tale ermeneutica, frutto di un pensiero pensante, non strumentale, la PT indica un metodo di discernimento, utile a rivisitare la democrazia nei vari contesti storici, compreso quello attuale in cui la 50.ma Settimana dei cattolici in Italia intende giungere dentro il suo cuore, per progettarla sempre più commisurata al fondamento, soggetto e fine che sono le persone e i gruppi, i popoli reali e concreti.

Un tale metodo di discernimento ha consentito a Giovanni Paolo II di giungere ad affermare con riferimento alla democrazia che: «La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno. Essa, pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato. Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della “soggettività” della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità».

Subito dopo aggiunge: «Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti sono convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima, la quale guida ed orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia».

Il messaggio profondo della Pacem in terris è, in definitiva, un messaggio di carattere ermeneutico, antropologico ed etico. Sono anzitutto le persone, con la loro dignità di esseri liberi e responsabili, dotati di doveri e di diritti – la PT è la prima enciclica che, rispetto all’elenco dei diritti presentati dall’ONU secondo una dimensione prevalentemente individualistica, offre un’ampia lista di diritti connessi a rispettivi doveri –, sono, in particolare, i popoli i soggetti generatori e costruttori della pace, delle istituzioni necessarie a realizzarla. Nell’era delle armi nucleari, spinto dal desiderio di rifiutare la nozione di «guerra giusta», Giovanni XXIII propone una nuova e più ampia concezione della pace. Questa non è l’assenza della guerra, bensì la costruzione di una convivenza sociale fondata sui grandi pilastri della libertà, della verità, della giustizia e dell’amore, beni-valori interconnessi tra di loro: uno non può esistere senza l’altro. Si tratta di una concezione positiva della pace, che implica la considerazione della questione sociale in termini eminentemente antropologici ed etici, spirituali, culturali. Anni dopo, san Paolo VI, presupponendo che la questione sociale è sempre più radicalmente questione antropologica, giungerà a dire che il nuovo nome della pace è lo sviluppo integrale della persona e dei popoli: sviluppo plenario, planetario, comunitario, aperto alla Trascendenza.

Benedetto XVI, negli anni successivi, nella “Caritas in veritate” giungerà ad affermare che la pace dipenderà non solo dal modo di concepire la vita, ma anche dalla circostanza che essa non venga manipolata mediante quelle biotecnologie che oggi sono sempre più nelle mani dell’uomo. Ci sono legami forti tra etica della vita ed etica sociale che non possono essere bypassati. Non ci sono sviluppo plenario e bene comune, e dunque pace, senza il bene spirituale e morale delle persone, considerate nella loro interezza di anima e di corpo. La tragica piaga dell’aborto e una montante mentalità eutanasica concorrono oggi ad una cultura della morte, nociva per lo sviluppo integrale e per la pace. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. «Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell’opulenza, il mondo ricco – rimarca Benedetto XVI – rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l’umano». Non c’è pace, dirà anni dopo papa Francesco nella Laudato sì’, senza un’ecologia integrale, giacché nel mondo tutto è connesso. Nella successiva enciclica Fratelli tutti ribadirà che non potrà esserci la pace senza fraternità, esplicitando così un nuovo pilastro per la costruzione della casa della pace.