L'individualismo che uccide

Il primato della vita, dei figli, dell’apertura delle famiglie all’accoglienza, della fecondità delle donne e della responsabilità degli uomini permettono ad una società di essere veramente dinamica, forte, capace di rigenerarsi, di affrontare le sfide del domani e i problemi del presente, in una parola sola di essere “viva”.

Una società sterile, ripiegata in stessa, spaventata, egoista, tesa solo alla perenne soddisfazione personale, individualista, è invece votata alla morte, all’estensione e alla scomparsa perché ha preferito rinunciare al futuro per godere solo dell’effimero nel presente. Questo tipo di società, che cresce e si espande come una pandemia nei Paesi occidentali, la morte arriva persino a desiderarla, ad agognarla a rivendicarla come diritto individuale. Una società di singoli individui disperati, senza patria (terra dei padri) senza famiglia, senza figli, che pongo il diritto a morire sopra ogni altra cosa.

Alla luce di queste semplici considerazioni si capisce perché la custodia e l’amore per la vita non possono essere dei principi relegati alla sfera dei convincimenti etici e religiosi personali ma costituiscono l’architrave antropologico di qualsiasi società capace di perpetrarsi, guardano al bene comune. Questo motivo la Giornata per la Vita, celebrata ieri dalla Chiesa italiana e istituita nel 1978 alla vigilia dell’approvazione della legge 194 che ha introdotto l’aborto in Italia, in questi ultimi anni si è arricchita di numerosi significati. Il crollo demografico, la fragilità della famiglie, la solitudine degli anziani, la povertà crescente in alcune fasce della popolazione, l’abbandono terapeutico, la diffusione del consumo di droga e l’apertura a forme di eutanasia e suicidio assistito sono i sintomi della contaminazione della cultura della morte in ogni ingranaggio della nostra civiltà.

La deriva è iniziata dal crollo della fede in Dio, della fiducia nella vittoria sulla morte promessa da Cristo con la sua resurrezione. In nome dell’autodeterminazione la vita non è più stato un bene indisponibile. L’aborto è stata una semplice conseguenza di questa disperazione individuale. In questa cornice molte donne ingannate da una falsa promessa di libertà e dalla cultura dello scarto, che preferisce eliminare ogni fragilità, rifiutano il frutto della propria carne. Ogni piccolo fiore reciso nel grembo rappresenta quindi una sconfitta per tutti noi che non abbiamo saputo mettere sopra ogni altra cosa l’accoglienza della vita nascente. Abbiamo fatto credere loro che quel bimbo, quella gravidanza, quella indissolubile primigenia unione tra madre e figlio fosse solo e unicamente un fatto privato, una scelta personale, piuttosto che il più prezioso e sconvolgente atto rigenerativo della nostra società.

Da questi presupposti nasce anche la paura verso quei popoli più prolifici, il timore di essere subalterni a chi alla vita resta sempre e comunque aggrappato fino all’ultimo soffio di energia. Mai scoderò la testimonianza di una ginecologa genovese che ha curato numerose donne giunte in Italia tramite la tratta dei migranti. Ragazze africane che davanti a gravidanze indesiderate o difficili le hanno ripetuto “per noi un figlio è sempre un dono”. Per quanto necessari e auspicabili non ci sono pertanto incentivi alla natalità che tengano di fronte all'abbraccio mortifero della cultura della società iper-individualista. Per guardare di nuovo al futuro non abbiamo altra scelta che quella di spalancare le porte alla vita.