Le difficoltà dell’Italia nello spendere le risorse europee

Durante un’audizione sul PNRR delle Commissioni bilancio della Camera e del Senato riunite in seduta comune l’8 marzo scorso, il ministro Daniele Franco, titolare del MEF,  ha evocato un tema che oggi – dopo tutti i salamelecchi che la Commissione europea ha rivolto al testo presentato dal governo annunciando lo sblocco sollecito di un acconto (che in breve dovrebbe arrivare a 25 miliardi) – è divenuto di stretta attualità: saremo in grado di spendere non solo bene (che è un requisito necessario e condizionante), ma di spendere tout court? Ormai – ottenuti tutti gli imprimatur  richiesti – siamo a nostri di partenza. Franco durante l’audizione aveva, come si suol dire, messo le mani avanti. “La predisposizione del Piano e la sua realizzazione sono tuttavia un’opera complessa. Condizione fondamentale per il successo del Piano è predisporre un documento dai contenuti ambiziosi, ma credibili e dettagliati, che definisca anche le specifiche modalità operative. Per l’Italia ciò implica  – hic Rhodus  hic salta, ndr – un cambio di passo nel modo di impiegare le risorse che anche in passato l’Unione europea ha messo a disposizione attraverso i Fondi Strutturali”. “Con riferimento all’ultimo ciclo di programmazione, ad esempio, i fondi UE hanno consentito  – ha ricordato il ministro – di attivare nel nostro Paese interventi per oltre 73 miliardi di euro. Tale ciclo si concluderà alla fine del 2023; a quasi due anni dalla fine sono state impegnate risorse per soli circa 50 miliardi e, di questi, ne sono stati spesi poco più di 34. Si tratta di un tasso di utilizzo molto contenuto, che riflette una scarsa capacità del nostro Paese di assorbire efficacemente i fondi europei nei tempi previsti”.

Quali sarebbero le conseguenze della conferma della nostra incapacità di impiegare le risorse che ci vengono fornite e che – paradossalmente – provengono dalla redistribuzione di  un Fondo che i vari Paesi – compresa l’Italia – concorrono ad alimentare? Per farla breve capita che le Regioni non riescano ad impiegare neppure le risorse che provengono dalle nostre casse e che vengono girate a Bruxelles. Perché si verifica una siffatta situazione? È bene precisare che non tutte le Regioni sono impreparate nell’utilizzazione di queste risorse. Anche in tal caso entra in gioco il divario tra Nord e Sud, tra la qualità politica e amministrativa delle istituzioni settentrionali rispetto a quelle al di sotto del Garigliano. Quali sarebbero le conseguenze se non fossimo in grado – dopo aver presentato degli ottimi scritti – di fare scena muta agli esami orali?

“Il ripetersi di tale situazione – ha detto Franco – può essere evitato soltanto attraverso un deciso rafforzamento delle strutture tecniche e operative deputate all’attuazione degli interventi’’. E’ un problema antico che ha le sue radici nella formazione scolastica-culturale, prevalentemente giuridica, della nostra burocrazia, mentre sono scarse le professionalità tecniche, tanto che, di solito, queste competenze devono essere acquisite al di fuori delle amministrazioni, attraverso consulenze che finiscono per durare per il tempo in cui rimane in carica il ministro che le ha attivate.

Abbiamo tutti ben presente la difficoltà incontrata dal ministro Brunetta nell’assunzione a tempo determinato di personale qualificato (2.800 unità) da collocare nelle istituzioni meridionali per contribuire ad elaborare i progetti. Al concorso non ha partecipato neppure la metà dei candidati selezionati. Non è la prima volta che operazioni di rafforzamento  della PA finiscono nel dimenticatoio. Nella legge di bilancio 2019 (governo Conte 1)  era prevista la costituzione della Centrale per la progettazione di opere pubbliche (forse nella logica dei costi/benefici allora imperante?) che doveva aiutare le amministrazioni in questo difficile compito, per adempiere il quale, a partire dal 2019, si sarebbe iniziato  con 300 assunzioni.  Era poi prevista, in quella legge, una Struttura di missione – InvestItalia – operante alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio dei ministri, a supporto delle attività di coordinamento delle politiche del governo e dell’indirizzo politico e amministrativo dei Ministri in materia di investimenti pubblici e privati.

La questione – già oggetto di misure di semplificazione che non hanno semplificato un bel nulla – è stata nuovamente affrontata anche dal governo Draghi.  La Camera  ha approvato il d.l. decreto-legge 31 maggio 2021 n. 77 (c.d. decreto Semplificazioni), che adesso passa blindato al Senato per approvazione definitiva.  Nel provvedimento (si veda il commento molto compiuto di Giovanni Mulazzani su Start magazine) vi sono importanti novità.

Innanzi tutto viene definita la governance del PNRR, incentrata sulla istituzione di una Cabina di regia, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri, alla quale partecipano di volta in volta i Ministri e i Sottosegretari competenti in ragione delle tematiche affrontate in ciascuna seduta.

La seconda parte prevede misure di forte semplificazione che incidono in alcuni dei settori oggetto del PNRR, quali la transizione ecologica ed energetica e la green economy, le procedure di affidamento dei contratti pubblici per lavori, servizi e forniture, alcune disposizioni relative al procedimento amministrativo (il c.d. silenzio assenso, il potere sostitutivo e l’annullamento d’ufficio); infine, la transizione digitale e l’innovazione tecnologica.

Non si deve dimenticare, però, la necessità di un chiarimento con la magistratura inquirente che troppo spesso agisce in nome di una pregiudiziale nefasta: alla base di ogni intervento che comporti l’impiego di risorse pubbliche vi sono episodi di corruttela. Il che ha comportato quel fenomeno definito ‘’lo sciopero della firma’’ nel senso che vi è la fuga dalle responsabilità nel timore – che è ormai una consapevolezza – degli amministratori e dei funzionari pubblici di essere automaticamente indagati con spreco di esibizione mediatica. Siamo arrivati al punto che i sindaci sono scesi in piazza per protestare contro una magistratura che impedisce loro di lavorare. Lo stesso Mario Draghi, due giorni dopo aver ottenuto la fiducia, ha voluto mettere le cose in chiaro intervenendo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario della Corte dei Conti. “Due sono le parole chiave di questa relazione: fiducia e responsabilità. Fiducia tra istituzioni e persone che le compongono, responsabilità nei confronti dei cittadini. È necessario – ha affermato il presidente – sempre trovare un punto di equilibrio tra fiducia e responsabilità: una ricerca non semplice, ma necessaria. Occorre, infatti, evitare gli effetti paralizzanti di quella che viene chiamata la “fuga dalla firma”, ma anche regimi di irresponsabilità a fronte degli illeciti più gravi per l’erario. Tenendo conto peraltro che, negli ultimi anni, il quadro legislativo che disciplina l’azione dei funzionari pubblici si è “arricchito” di norme complesse, incomplete e contraddittorie e di ulteriori responsabilità anche penali. Tutto ciò ha finito per scaricare sui funzionari pubblici – ha proseguito Draghi – responsabilità sproporzionate che sono la risultante di colpe e difetti a monte e di carattere ordinamentale; con pesanti ripercussioni concrete, che hanno talvolta pregiudicato l’efficacia dei procedimenti di affidamento e realizzazione di opere pubbliche e investimenti privati, molti dei quali di rilevanza strategica”. In questo caso le parole sono state pietre che hanno colpito nel segno. Forse è per questo motivo che non vengono mai ricordate.