L’applicazione della legge sull’eutanasia: una regressione etica

Le preoccupazioni avanzate, dopo l’approvazione della L. 219 sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) quale precorritrice di una legge che legalizzasse l’Eutanasia anche in Italia, si sono rivelate fondate. Nei giorni scorsi infatti le  Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera hanno approvato il testo unificato del Ddl in tema di ”Morte volontaria medicalmente assistita” più comprensibilmente tradotta in “Eutanasia di Stato”.

La Corte Costituzionale infatti, aveva già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma penale che sanziona l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e su questa base aveva sollecitato un intervento del legislatore (sentenza n. 242/2019) per il vuoto normativo che si era istituito. La proposta di legge, ricalcando in buona parte quanto già normato dalla legge 219, è composta da 8 articoli che riguardano le finalità, i presupposti e le condizioni, i requisiti, la forma della richiesta e le modalità.

La finalità della legge consiste nel consentire, ad una persona in determinati casi e a specifiche condizioni: “essere affetta da una patologia irreversibile o a prognosi infausta,  essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, essere assistita dalla rete di cure palliative o abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale” (art. 3), di “richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita (art. 1)”; con il supporto e la supervisione anche del “Servizio Sanitario Nazionale (art. 2) che, in tale maniera, snatura di fatto la propria funzione primaria di datore di salute diventando altresì procuratore di morte.

L’eventuale applicazione della legge sull'”Eutanasia”, annosa questione presente fin dai tempi d’Ippocrate, denuncia di fatto una regressione etica che nel corso dei secoli è passata dal “rispetto  Ippocratico” assoluto della vita dal suo inizio, “non fornirò mai ad una donna un mezzo per procurare un aborto”, fino al suo termine naturale, “non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale”, ad una “cultura di morte” che poco spazio lascerà, al disabile grave, all’anziano non autosufficiente, al malato terminale certamente depresso, angosciato, obnubilato e troppo spesso lasciato solo nella sua vita di sofferenza.

Viene da chiedersi come si sia potuti giungere a un tale deterioramento etico, in un Paese come l’Italia, dove certi valori, come il rispetto e la tutela della vita, sono stati sempre  salvaguardati e garantiti dalla Costituzione.

Per comprendere questo, bisogna riallacciarsi alla teoria della “Finestra di Overton”, sociologo americano che spiega come si possano “manipolare le masse” trasformando gradualmente un’idea da completamente inaccettabile a pacificamente accettata, e infine legalizzata.

Secondo questa teoria infatti qualunque idea, pur se assurda e dannosa, può trovare una sua “finestra” di opportunità  nel pensiero diffuso e dominante; in ciò agevolata, nell’era di internet e dell’intelligenza artificiale, da “Grandi Fratelli” invisibili.

Se si guarda infatti a ciò che sta succedendo attualmente nella nostra collettività, ci si accorge come situazioni che ci avrebbero fatto inorridire nei decenni passati, come ad esempio “l’aborto”, a poco a poco sono diventate banali e quindi accettabili, proprio come sostenuto da Joseph Overton, lasciandoci oggi per lo più indifferenti.

Il percorso e le tappe, attraverso le quali tali sequenze si realizzano, si sintetizzano progressivamente e senza che ne prendiamo coscienza, in queste fasi successive:

1) Impensabile: “l’idea e i comportamenti annessi risultano impresentabili”;  2) Divieto: si ma con qualche eccezione”;  3) Accettabile: “io non lo farei mai, ma perché impedirlo ad altri? “;  4) Ragionevole: “non c’è nulla di male”;  5) Diffuso: “rappresenta ormai un sentire comune” (testimonials, cantanti, attori, programmi televisivi ecc.);  6) Legale: “l’idea viene ufficialmente recepita nell’ordinamento dello Stato”:  L’obiettivo è raggiunto.

E’ un po’ quello che succede nel “principio della rana bollita“, vecchio esperimento ottocentesco che mostra come, se la cavia viene gettata in acqua bollente automaticamente salta per sottrarsi alla morte, ma se posta in acqua che si scalda pian piano, gradualmente e senza accorgersene, si abitua fino a divenire bollita.

E’ quanto già è accaduto e accade nelle diverse dittature dove interi popoli, non sempre a seguito di volontà autoritarie, si sono trovati ad un certo punto a pensare tutti alla stessa maniera.

Ed è proprio quello che sta succedendo ora nella nostra Società dove, secondo il pensiero unico dominante, si sta cercando attualmente di imporre la Teoria e l’insegnamento Gender nelle scuole col Ddl Zan e l’Eutanasia, come panacea della sofferenza, attraverso l’approvazione da parte delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera del testo unificato relativo al “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”.

Risulta del tutto evidente che l’eventuale applicazione di questa legge aprirà una molteplicità di problematiche di tipo etico, giuridico e sociale. Il medico infatti non sarà più chiamato come sua specificità ad essere datore di salute, ma al contrario sarà un mero esecutore di morte.

Il paradosso di questa legge consiste  poi nel fatto che chi sarà fedele alla propria mission ippocratica, che è quella di dare salute ed alleviare la sofferenza, potrà essere suscettibile di denuncia da parte del richiedente nulla normando tale legge riguardo all’eventuale obiezione di coscienza da parte dei Sanitari, assolvendoli  al contrario, attraverso l’art. 7  sull’ “Esclusione di punibilità”.

Altra  questione, per certi versi simile, riguarda “l’eventuale obbligatorietà” da parte delle strutture sanitarie cattoliche nel garantire l’applicazione della legge non comparendo nessuna norma esplicativa in tal senso.

La grande questione etica che emerge nella discussione sul fine vita può essere riassunta sinteticamente in: “Se, Come e Quando”. Se Interrompere le cure, in che misura, ed eventualmente quando interromperle. A questi quesiti non esiste legge che può  rispondere, essendo “il Se, il Come e il Quando” di esclusiva pertinenza medica.

Chi infatti, se non il medico, che conosce il paziente, la sua storia clinica, il suo vissuto, le sue fragilità, la paura che ha della morte, può essere in grado di aiutare e capire il perché di un rifiuto della terapia o di un’eventuale richiesta di Eutanasia? Chi si preoccupa minimamente del “Perché”, di quali siano le ragioni per cui un paziente può giungere ad una tale richiesta?

Perché ha dolore o difficoltà respiratoria, trascurato magari dal suo medico curante? E’ sufficientemente seguito nella terapia palliativa ed assistito convenientemente nella sedazione del dolore e nella ventilazione, così come è curata decorosamente la sua igiene individuale e salvaguardata la sua dignità di persona?

E chi deve stabilire qual è la sottile linea di confine tra accanimento ed abbandono terapeutico: il malato, che nella maggior parte dei casi è depresso, angosciato, sofferente ed obnubilato nel percepire il mondo esterno, il tutore o il familiare?

O piuttosto tale decisione  deve essere valutata, come nei millenni di Ars Ippocratica, dall’Operatore Sanitario in un rapporto di collaborazione con il paziente? Per rispondere a tali quesiti è necessario infatti che, nel rapporto medico paziente, non ci siano terzi come la politica o il legislatore ma che si ristabilisca quell’alleanza terapeutica che sola potrà accompagnare il paziente a morire con dignità.

A tale proposito sembra significativo qui ricordare San Giovanni Paolo II, che nell’Evangelium Vitae, così affermava: “L’eutanasia raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire….”.