Editoriale

Il cenacolo: luogo del testamento di Gesù

La sera del Giovedì Santo, la Chiesa fa memoria grata e commossa dell’ultimo manifestarsi di Gesù prima della Croce. Tutto avviene nel cenacolo, che per gli amici di Gesù (per noi, quindi!) è un luogo affettivamente molto denso: è il luogo del testamento di Gesù, il luogo nel quale Gesù consegna ai discepoli la sua intimità: “prendete e mangiate, questo è il mio corpo…Bevete, questo è il mio sangue”; sarà poi un luogo di rifugio, fino a Pentecoste, quando lo Spirito aprirà le porte e i cuori, e i discepoli finalmente usciranno, incontro al mondo e alla vita…

Nel contesto di una cena e di un gesto ospitale (perché Eucaristia e lavanda dei piedi sono lo stesso gesto: dicono lo stesso vangelo), si manifesta la verità di ciascuno, di Gesù e dei discepoli. E la verità di ciascuno ha a che fare con l’amore. Non a caso, nel vangelo di Giovanni, le parole e i gesti della cena sono all’interno di una grande inclusione, che concerne l’amore:

  • “sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (13,1);
  • “ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (17,26).

Prima della morte e del colpo di lancia che “gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua” (Gv 19,34), il cuore di Gesù è molto “abitato”: dal Padre e dai discepoli, i suoi grandi amori, intrecciati fra loro…

E commenta Giuseppe Angelini: “in quella sera del Giovedì, che fu l’ultima, Gesù volle quasi l’impossibile: Gesù volle rivelare in anticipo ai suoi discepoli il segreto e la speranza di quel cammino di passione, che poi essi avrebbero vissuto come cammino incomprensibile e senza speranza. Gesù volle dire ai suoi qualche cosa di questo genere: “non sia turbato il vostro cuore”.

E per dire l’indicile è come costretto (lo facciamo tutti, quando le parole non bastano!) a compiere un gesto: il gesto della lavanda dei piedi, narrato in Gv 13, 1-15, del quale la Chiesa fa memoria grata e obbediente (“fate questo in memoria di me”, aveva detto il Maestro) nella Messa in coena Domini, la sera del Giovedì.

“Depose le vesti…versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli”. E’ il gesto dello schiavo pagano, che lava i piedi al padrone quando torna da un viaggio, ma i verbi di cui Giovanni si serve per descrivere il gesto dicono una signoria, una regalità di Gesù, che si manifesta subito: “Riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono”.

Il gesto allora anticipa la Pasqua di Gesù, che esprime il suo amore “fino alla fine”, fino all’illimite, alla dismisura dell’amore: l’amore che muore (le vesti deposte) e, proprio perché muore, risorge (le vesti riprese). Non c’è prima la morte e poi la risurrezione, ma, in quella morte di croce e di vergogna, la vita, definitivamente consegnata al Padre e a noi!

Ma, con il gesto, Giovanni riporta le parole di Gesù: “vi ho dato un esempio…perchè anche voi facciate come ho fatto io…Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”. Gesù, infatti, in questo gesto, “fonda la possibilità di essere cristiano; mostra che cosa significa, e ne dà la forza per praticarlo. Seguirlo poi non vuol dire imitarlo -quante contraffazioni e quante stonature ne seguirebbero! -, ma vivere in lui e operare il bene, ora per ora, in virtù del suo Spirito” (Guardini).

Il gesto di Gesù diventa allora per noi una chiamata:

  • anche a noi è chiesto di deporre le vesti dell’egoismo e delle abitudini stanche, “per assumere la nudità della comunione…indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza…ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà” (Tonino Bello);
  • ma ci è chiesto anche di disarmarci, come Pietro che alla fine smette di difendersi (“non mi laverai i piedi in eterno”) e si arrende senza condizioni (“Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!”);
  • e per vivere così la gioia della fraternità e della sororità: “lavare i piedi gli uni agli altri”.

Il popolo cristiano – pur così lontano e disperso, in questo tempo difficile – conserva la memoria di quel gesto eucaristico (perché, lo ripeto, Eucaristia e lavanda dei piedi sono la stessa cosa), e dopo la Messa del Giovedì si ferma in chiesa, fino a tarda sera, per sostare presso l’altare della reposizione (presso il sepolcro, dice la gente, con parola impropria, ma significava), e poi ritorna il Venerdì. Non solo per abitudine o per curiosità, ma per fermarsi, almeno un po’, per affidarsi…Anche per contemplare e adorare: la gente sa che lì c’è il Mistero di un Amore liberamente dato…

Per questo, il Giovedì Santo mi è caro: perché mi aiuta a fermarmi, e a raccogliere il pensiero, gli affetti e le scelte attorno al Mistero, che non ci può essere tolto.

mons. Calogero Marino

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