Editoriale

80 anni fa nasceva in teatro la Chiesa dei giovani

San Giovanni Paolo II è stato il Papa dei giovani, l’inventore delle Giornate mondiali della gioventù. La scoperta di un linguaggio ecclesiale per le nuove generazioni si intreccia con le vicende biografiche del futuro Pontefice. Ottant’anni fa Karol Wojtyla perse l’amatissimo padre e accolse in casa la famiglia di Mieczyslaw Kotlarczyk, fondatore del “teatro della parola viva” (Rapsodyczny). E’ dello stesso 1941 la prima rappresentazione teatrale di “Krol Duch” (Spirito regale) di Juliusz Slowacki. E’ nella creatività dell’arte che maturano i talenti di colui che diverrà il Papa dei giovani. Da lì a poco, infatti, l’attore-operaio-drammaturgo viene trasferito dalla cava alla fabbrica Solvay. E inizia a frequentare corsi clandestini della facoltà di teologia dell’Università Jagellonica come seminarista dell’ arcidiocesi di CracoviaE’ in questo originalissimo crogiolo culturale e spirituale che matura la sensibilità di Karol Wojtyla verso l’universo giovanile. Sono passati otto decenni da allora ma gli effetti di questa svolta si riverberano indelebili sulla Chiesa universale. I suoi primi parrocchiani erano stati gli studenti di Cracovia. E i giovani avevano subito percepito che quel prete non era come tanti altri. Parlava di Dio, della religione, della Chiesa, ma anche dei loro problemi esistenziali: l’amore, il lavoro, il matrimonio. E Karol, a sua volta, aveva scoperto il valore profondo della giovinezza. Che è un periodo di costruzione, di progettazione, ma anche di ricerca di risposte autentiche agli interrogativi sulla vita. Per cui, volendo mantenere costanti i fili di quel dialogo, e non lasciare i giovani in balia delle false lusinghe marxiste, si portava ragazzi e ragazze in campeggio. L’”apostolato dell’escursione”, lo aveva chiamato.La profezia del dialogo tra le generazioni, rievoca il decano dei vaticanisti Gianfranco Svidercoschi, amico e collaboratore del Pontefice santo. Segni evidenti di una sintonia che affiorerà fin da subito nel suo pontificato. Più che a governare, a Giovanni Paolo II interessava andare alla sostanza della fede, della missione della Chiesa. Che è vivere il Vangelo, e far incontrare l’uomo con Dio. È vivere il Vangelo, e rispettare la dignità dell’“altro”, degli “altri”, qualunque sia il colore della pelle, l’origine razziale, il credo religioso, l’appartenenza politica, ideologica. “L’altro mi appartiene“, aveva scritto Wojtyla in un suo documento.E’ stato Giovanni Paolo II a dare una poderosa spallata a quella che una volta aveva criticato come “l’antica unilateralità clericale”. Ma fu poi la “realtà” profonda del cattolicesimo, sotto l’azione dello Spirito, a emergere alla superficie. A imporre nuovi protagonisti (appunto i giovani, i movimenti, le donne). E nuove vie. Ossia il passaggio da una Chiesa gerarchica, clericale, a una Chiesa più comunitaria, più laicale, più popolo di Dio. Già al Concilio Vaticano II il vescovo Wojtyla aveva ritrovato, e quindi maturato  molte delle questioni che aveva affrontato nel suo ministero episcopale a Cracovia. Come il rinnovamento liturgico, l’ecumenismo, i rapporti con l’ebraismo, una più attiva partecipazione del laicato (specialmente dei giovani e delle donne) alla vita
della Chiesa. Per non parlare della libertà religiosa, un problema profondamente avvertito in un Paese come la Polonia oppresso da due totalitarismi, l’uno dopo l’altro, quello nazista e quello comunista.Durante la sua partecipazione al Concilio la situazione in Polonia si era aggravata. E l’arcivescovo di Cracovia non aveva potuto più mantenere la linea di moderazione, e di interventi solo spirituali, che si era imposto. Quindi, era uscito allo scoperto, ogni giorno di più. Per difendere perseguitati e oppressi. Per far rispettare la libertà di culto. Per proteggere i movimenti giovanili. Era diventato il nemico numero uno del regime. Controllato. Pedinato. Spiato. E minacciato fino all’ultimo, alla partenza per Roma, dove avrebbe partecipato al conclave per la successione di papa Luciani. Gli avevano già sequestrato il passaporto diplomatico, lasciandogli solo quello turistico. E il segretario provinciale del partito comunista gli aveva detto: “Vada, vada, al suo ritorno faremo i conti…”.

 

Giacomo Galeazzi

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