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Ferguson continuano le proteste, l’agente: “Ho la coscienza pulita”

“Un distintivo non è una licenza ad uccidere”. È stato questo lo slogan protagonista delle manifestazioni che ieri, da Ferguson a New York, da Chicago a Washington, da San Francisco a Seattle e per tutto il resto degli Stati Uniti, hanno protestato contro la decisione del Grand Jury di non incriminare l’agente che il 9 agosto scorso ha ucciso il ragazzo di colore Michael Brown.
I cortei, per la seconda notte di seguito, hanno sparso confusione in tutti gli angoli delle città: ponti, tunnel e autostrade sono rimasti bloccati, manifestanti erano sdraiati a terra per “simboleggiare le quattro ore e mezza in cui Brown è rimasto sull’asfalto”, arterie urbane sono state rese completamente inaccessibili. A Ferguson, poi, vista l’altissima tensione che è sconfinata anche in arresti, il governatore del Missouri Jay Nixon è stato costretto a chiamare i rinforzi per la guardia nazionale.

In un intervento a Philadelphia, Obama ha affermato che “il problema non è solo un problema di Ferguson, è un problema dell’America. E se una parte della comunità statunitense non si sente trattata in maniera equa, la cosa mette tutti a rischio”. Ma anche se “le frustrazioni che abbiamo visto hanno radici profonde, dare fuoco a edifici, bruciare auto, distruggere proprietà, sono reati che devono essere perseguiti”.

Ma l’agente Darren Wilson non si pente delle proprie azioni: “Mi dispiace molto per la perdita di una vita – ha affermato nella sua prima intervista dopo mesi di silenzio – ma ho fatto semplicemente il mio lavoro. Non è stata un’esecuzione e ho la coscienza pulita”. A George Stephanopulos il poliziotto ha raccontato le dinamiche di quel tanto discusso e controverso episodio: “Mi ha sbattuto la portiera contro – ha spiegato – ho cercato di respingerlo e mi ha dato un pugno, c’è stata una colluttazione. Ho cercato di afferrare il suo braccio, mi sono reso conto della forza che aveva. Mi sembrava Hulk. Quando gli ho detto di allontanarsi altrimenti avrei sparato – continua l’intervista – lui si è arrabbiato di più. È uscito dall’auto ed è fuggito, mentre io chiedevo rinforzi”.
Wilson ha spiegato di aver svolto il proprio dovere, “ci addestrano per fare questo”. “Ho visto che ha messo una mano in alto, a forma di pugno mentre l’altra era nella cintura”, ha spiegato, sottolineando il fatto che il ragazzo non aveva entrambe le mani alzate, come al contrario affermano i testimoni.
“Quando si è avvicinato – ha concluso l’agente – mi sono chiesto: posso legalmente sparargli? E mi sono detto che dovevo farlo e ho sparato. Mi dispiace, ma non avrei fatto nulla di diverso quel giorno. La mia coscienza è a posto”.

Giulia Capozzi

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