Terra Santa, l’ora del dolore: “Ma il dialogo non è utopia”

Padre Davide Carbonaro, guida di Terra Santa, a Interris.it: "È un viaggio del cuore, come quello dei discepoli di Emmaus. Si riscopra unità fraterna"

Terra Santa
Foto di Lisa Forkner su Unsplash

Terra Santa e violenze. Un accostamento che è in realtà un’antitesi profonda, dissonante, equivoca. Non può esserci violenza nelle terre in cui prese forma e consistenza il messaggio di speranza per l’umanità. Eppure, sordo agli insegnamenti ricevuti, l’uomo continua a violare il principio stesso di fratellanza universale, lasciando che l’ideologia fondamentalista proliferi per continuare a nutrirsi dello stesso clima di instabilità che genera. L’attacco di Hamas a Israele e la conseguente reazione di Israele hanno portato a una nuova escalation in Medio Oriente, con possibilità concrete che i confini del conflitto, per ora circoscritti, possano allargarsi pericolosamente. Uno scenario che finirebbe per tirare dentro tutti, come in un domino inarrestabile di interessi e alleanze. E con la Terra Santa che, luogo di spiritualità, di fede e di meditazione, resterebbe una polveriera pronta a esplodere. Priva di pellegrini e di viaggi, del cuore e dello spirito. Ma, come spiega a Interris.it padre Davide Carbonaro, assistente diocesano delle Acli di Roma e guida di Terra Santa dell’Opera Romana Pellegrinaggi, c’è ancora la speranza del dialogo. E a consegnarcela è il Vangelo stesso.

Padre Davide Carbonaro
Padre Davide Carbonaro

La Terra Santa non è solo un’area storica o geografica ma un luogo del cuore. Il nuovo conflitto in corso in Medio Oriente ha imposto ai pellegrini di fermarsi e questo provoca dolore…
“Io sarei dovuto partire proprio oggi ma, come accaduto per tutti gli altri programmati, anche il mio viaggio è stato cancellato. Quando partiamo in pellegrinaggio lo facciamo in modo protetto, abbiamo itinerari verificati. Chiaramente, in alcuni punti più caldi e in alcuni particolari giorni della settimana, come ad esempio il venerdì o il sabato in alcune zone di Gerusalemme, dove risiedono gli ebrei più tradizionali, si evita di passare per rispettare questo tipo di realtà. Noi sappiamo che i luoghi che attraversiamo sono abbastanza sicuri ma solo finché la sicurezza può essere garantita. Questa interdizione non lo permette, né per i pellegrini né per i civili che vi vivono”.

Ha avuto modo di ascoltare testimonianze?
“Riceviamo immagini dei luoghi della Terra Santa, come il Santo Sepolcro, che sono desolanti perché non ci sono persone. Non sono frequentati né dai pellegrini né dai fedeli che si trovano lì, perché per paura si preferisce restare in casa. Questa è la situazione nei luoghi santi che attraversiamo. Poi è chiaro che le zone della Striscia di Gaza, come anche alcune aree del Ramallah, non si possono di per sé visitare”.

Uno dei vostri viaggi vi ha portato più a sud?
“Ultimamente, ricordo un pellegrinaggio in cui siamo riusciti ad andare a Ekron, ossia in una zona più meridionale, scendendo da Betlemme verso la zona di Gaza. Un luogo importante perché vi si trovano le tombe di Abramo e di Sara, quindi luoghi legati alla memoria cristiana, ebraica e anche musulmana, di forte impatto religioso per le tre grandi religioni”.

Eppure, nonostante la grande spiritualità che accomuna le religioni, le violenze continuano non solo a poca distanza dai luoghi che dovrebbero unire in suo nome ma a volte persino dentro di essi…
“È un grande dolore. E lo è anche per le persone che hanno dovuto rinunciare al viaggio. Non tanto per la rinuncia in sé ma perché questo è il viaggio per eccellenza della vita. Sia che si faccia per la prima volta che una seconda, magari per approfondire quanto già visto, è un viaggio nel cuore del Vangelo. Si desidera incontrare il Signore Gesù come i discepoli di Emmaus, che si mettono in cammino con le loro delusioni per poi essere affiancati da Cristo. Il paradigma del viaggio in Terra Santa lo possiamo ritrovare nella scena del capitolo 24 del Vangelo di Luca. E il dolore percepito dai pellegrini si unisce a quello delle persone che vivono lì. I civili, le persone che vivono la nostra stessa quotidianità e che ogni giorno pregano nella sinagoga, in chiesa o nella moschea e che hanno apprensione per la situazione destabilizzata che stiamo vivendo e i segni di violenza che sono davanti ai nostri occhi”.

Nonostante questo, c’è chi si adopera nel nome dei principi di fratellanza universale. Alcuni anni fa, quando le forze fondamentaliste avevano stretto nella morsa della persecuzione i cristiani iracheni, i musulmani tolleranti prestarono aiuto. Oggi, è la piccola comunità cattolica di Gaza che apre le sue porte…
“Dalle informazioni che noi abbiamo, ad esempio la presa diretta delle telefonate del Papa al parroco di Gaza, oppure le informazioni che abbiamo dalla comunità cristiana di Gaza, i cristiani sono i primi a distribuire quella poca acqua a disposizione nel pozzo presente all’interno della zona parrocchiale o la poca benzina in deposito. Questa immagine della condivisione che nasce dal principio cristiano dell’amore e del perdono, perché non funziona laggiù? Si è fermi a quell’occhio per occhio, dente per dente che ha caratterizzato storicamente quell’area”.

Quanto può realisticamente fare il dialogo interreligioso?
“Io credo alla possibilità di uno Stato palestinese, se si riesce a crearlo e se si riesce a creare un equilibrio nel dialogo. Ma questo sembra che in questi decenni sia stato impossibile per tante volontà, locali, politiche, religiose, internazionali. Preghiamo affinché queste volontà si uniscano in una riscoperta del dialogo fraterno, così come Papa Francesco ci sta chiedendo nel suo magistero. E ritrovare così l’unità per il bene di tutti. Non so se sia utopia ma come cristiani possiamo dare il contributo del primo passo, perché abbiamo imparato questo da Gesù che è il nostro maestro. Davanti a noi abbiamo l’umanità che Gesù ha assunto e che ama”.

In passato la Chiesa ha fatto molto a livello di mediazione. Può farlo ancora, nonostante il fondamentalismo strisciante che grava su quelle terre?
“Peraltro molto evidente nella parte della tradizione religiosa islamica, proprio perché questi fondamentalismi che sfociano in gruppi jihadisti esasperano il principio della religione. Che non è per servire i propri bisogni o le proprie esigenze di espansione militare e politica ma perché l’uomo ritrovi la sua pace nel Signore, che è Dio della pace sia per i cristiani che per i musulmani. È nella semplicità del saluto che c’è scritta la parola pace. E se questo saluto diventasse la regola di vita potrebbe portare a delle soluzioni. Non tanto nelle realtà ora in conflitto: attorno a loro, c’è una situazione internazionale che deve aiutarle a trovare una risoluzione. Da soli non è possibile, bisogna lasciarsi aiutare. E tutte le possibilità di dialogo che vengono dalle comunità internazionali, compresa la Chiesa, sono benvenute”.