Sindrome del nido vuoto: una fine o un nuovo inizio?

Un distacco difficile da accettare. La condizione che colpisce i genitori nel momento in cui i figli lasciano la casa d'origine

La “Sindrome del nido vuoto” è la condizione, di disagio psicofisico, che colpisce i genitori nel momento in cui i figli lasciano la casa di origine per sposarsi, per convivere o per altri motivi tra cui quelli lavorativi. La situazione di iniziale impreparazione a rimaner soli, a sconfinare nei ricordi e nella nostalgia, alimentata dalla memoria degli ambienti casalinghi ormai semivuoti, è fisiologica, un “lutto” che si elabora gradualmente. Nel momento, in cui, però, un padre, o una madre, non supera tale fase, precipita in una condizione altamente depressiva e patologica, riferita, a volte, all’autoconvinzione del fallimento genitoriale.

È normale che ci sia, dopo tanti anni, un momento di tristezza per l’abbandono dei “pargoli”, è quasi “un diritto” quello di concedersi un pianterello di commiato; tuttavia, il proseguire nel problema, trasformandolo in dramma, significa essere entrati pienamente nella sindrome e in quello che comporta. Le conseguenze del disagio sono di tipo fisico (dolori, cefalee, astenia) e di natura psicologica (ansia, depressione, stress). La patologia colpisce il genitore nel momento in cui vive, come negativa e lacerante, la normale emancipazione dei propri figli.

Si pongono, quindi, le basi per una “prova del 9”, in cui, al di là dei pensieri e delle frasi spese in precedenza sull’argomento, si è davvero alla prova dei fatti. Le reazioni, seppur preparate da tempo all’evento, possono essere di vario tipo e non necessariamente equilibrate. Un genitore che si è prodigato incessantemente per il figlio, vivendo una situazione errata, di annullamento della personalità, rischierà di procedere in un secondo problema, quello di drammatizzare l’emancipazione. Un genitore che ha mantenuto un rapporto sano, non morboso, sarà più in grado di gestire il “lutto” ma non sarà necessariamente esente da possibili reazioni errate.

La prospettiva è fondamentale: i figli che lasciano la casa di appartenenza per l’indipendenza rappresentano, oggettivamente, per tutti, un inizio, di una nuova vita. Il rischio è che il genitore possa considerarlo, invece, come una fine. Anche per i genitori è un inizio, si comincia una vita nuova, in cui sarà fondamentale mantenere l’equilibrio di coppia e in cui sarà possibile sviluppare delle diverse occasioni, lavorative, culturali, sociali.

Saper accettare la partenza dei figli è il miglior dono che questi potranno ricevere e saranno tanto più felici quanto più serenamente avranno compreso la loro decisione. Santa Teresa di Calcutta ricordava: “I figli sono come gli aquiloni: gli insegnerai a volare ma non voleranno il tuo volo. Gli insegnerai a sognare ma non sogneranno il tuo sogno. Gli insegnerai a vivere ma non vivranno la tua vita. Ma in ogni volo, in ogni sogno e in ogni vita rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto”.

Nei casi in cui il distacco avvenga soprattutto per cessare un atteggiamento oppressivo paterno e/o materno, si assiste a una fase molto delicata: per il giovane significa respirare aria di libertà, per chi era ossessivo, è necessario un “mea culpa”. Il padre, o la madre, che non si avvede di tale comportamento oppressivo, supererà con grandi difficoltà il momento del distacco, in forza anche di un egoistico intento di programmare la vita altrui e di proiettare le proprie aspirazioni o gli obiettivi che non ha raggiunto.

Chi soffre tale disagio dovrebbe ricordare la propria fuoriuscita da casa (per le generazioni precedenti era anche più precoce) e i tormenti che, probabilmente, ha provato e che ha generato negli altri. Un raffronto del genere potrebbe essere molto utile ad accettare l’evidenza, il corso della vita.

“Il nido vuoto”, sottotitolo “Quando i figli se ne vanno”, è il titolo del volume pubblicato da EMP nell’agosto del 2021. Si tratta di un “sussidio liturgico-pastorale, preparato da un gruppo di famiglie, è un aiuto non solo a questi genitori, ma a tutti quelli che vorrebbero prepararsi per tempo a questo momento cruciale, e desiderano farlo ponendosi dal punto di vista della fede in Dio”. Nel Rapporto annuale del 2022, in “pillole”, l’Istat rileva che “nel 2021 sono poco più di 7 milioni i giovani di 18-34 anni che vivono in casa con i genitori (67,6%), in aumento di 9 punti dal 2010, cioè prima che gli effetti della Grande recessione tornassero a far crescere la permanenza in famiglia. Rispetto al 2019, ossia prima della pandemia, la permanenza è cresciuta di 3,3 punti. Nel Mezzogiorno la situazione per i giovani in famiglia è più critica. Non solo perché in questa area del Paese sono relativamente di più quelli che vivono con i genitori (il 72,8% contro il 63,7% del Nord e il 67% del Centro) ma anche per l’alta incidenza di giovani in famiglia che si dichiarano disoccupati (35%), doppia rispetto al Nord (17%), e la contestuale bassa incidenza di quelli occupati (29% nel Mezzogiorno contro 46% nel Nord). Sul totale dei giovani occupati di 15-34 anni, nel 2021 un ragazzo su tre e quattro ragazze su dieci sono dipendenti a tempo determinato, più del doppio di quanto registrato sul totale degli occupati 15-64enni (15,7% tra gli uomini e 17,3% tra le donne)”.

Interessante un approfondimento, sempre dell’Istat, del maggio scorso, intitolato I giovani e la transizione allo stato adulto. Nel periodo dal 1998 al 2022, rileva, in merito al degiovanimento, i seguenti dati: “In senso assoluto: -4milioni 400 mila giovani 15-34 anni (perdita di oltre 1 su 4); crescono gli anziani: +4milioni 70mila anziani (+40%). In senso relativo: il rapporto giovani/anziani si è ribaltato prima nel Nord e Centro e poi nelle Isole (2020) e nel Sud (2022)”. Il problema è antico, risolto nelle varie comunità secondo la contestualizzazione del momento, fra opportunità, aspettativa di vita e destinazioni extrafamiliari (spesso, per i ragazzi, di carattere militare).

Sono sempre più rari i casi di famiglie riunite, in cui i figli escono dall’appartamento dei genitori per occupare quello più in basso o più in alto nella palazzina di famiglia, secondo una programmazione già sviluppata da tempo. L’epoca contemporanea si distingue per un aumento dell’età media, per motivi di varia natura, in cui i cosiddetti “bamboccioni” escono da casa e si rendono indipendenti. Tale situazione anomala ha alterato gli equilibri e ha generato situazioni mutevoli, contraddittorie. La presenza prolungata in casa, infatti, produce spesso mugugni e conflitti da ambo le parti, salvo poi, alla luce dei fatti, produrre un’inaspettata e contrapposta tristezza.

Un riequilibrio dell’età dell’indipendenza potrebbe evitare tali scompensi umorali e comportamentali, rendendo più graduale, e sedimentata, una fase “normale”. Il problema, più ampio, è nel saper accettare e vivere serenamente la novità, quel cambiamento e quella trasformazione sociale che spaventano ancor prima di iniziare. Un atteggiamento di pigrizia, molto routinario e consuetudinario, non predispone a un cambio nella vita propria e dei figli e non è, in ogni caso, il modo migliore per approcciarsi alle novità. Un altro termine, quello di “opportunità”, non sempre è compreso pienamente, spaventa ancora.

Nella società fluttuante, in cui la personalità umana è stata destrutturata e disgregata, in cui l’individuo fatica a ricostruire quotidianamente la propria identità, l’ancoraggio ai pochi punti ancora saldi è ancora più ricercato. L’individuo che naufraga nella società liquida, si aggrappa al salvagente degli affetti familiari, per quelli che (posti anch’essi a repentaglio) ancora ne rimangono.

Una società più equilibrata, organicamente e non meccanicamente solidale, fondata su valori profondi e condivisi, non drammatizza l’indipendenza dei propri figli. Un figlio che esce è un “prossimo” che entra, è l’alterità che fa capolino perché si instaurino nuove relazioni sociali.