“Salvata dalla strada, sono rinata grazie ad un rosario”

Per la giornata internazionale contro la tratta il presidente Acquaroli visita la casa rifugio Papa Giovanni XXIII: “la prostituzione non dovrebbe esistere in nessuna forma”. Storia di una “donna crocifissa” che racconta a Interris.it: “Sono stata salvata dall’inferno della strada perché un sacerdote mi ha indicato la via della rinascita”

Quando arriva in questa casa delle “donne crocifisse” una personalità delle istituzioni lo leggo sempre come un dono permesso dal Signore. È certo, forse scontato, che un sacerdote creda che ogni incontro è voluto dall’Alto o come diceva il Servo di Dio don Oreste Benzi il fondatore della comunità Giovanni XXIII a cui appartengo “il Signore aveva sempre pensato a questo incontro, sapeva che ci dovevamo incontrare attraverso quell’intelligenza d’amore che sa far bene tutte le cose”. E così, la vigilia del 30 luglio, per la Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani, ha bussato nella casa rifugio per le vittime della tratta il presidente della Regione Marche, Francesco Acquaroli.

Il significato della visita del presidente Acquaroli

La visita di un governatore in una casa dove vivono le donne più invisibili della società a cui è stata calpestata la dignità, a cui è stata tolta anche la voglia di sopravvivere, assume un grande significato, specialmente se è proprio un uomo, un politico, il responsabile di un governo regionale, a rendersi conto, a vedere e ascoltare l’orrore che delle giovanissime donne hanno dovuto subire. Il Presidente ha visitato il centro appena ristrutturato e ampliato grazie ad una importante donazione fatta direttamente da Papa Francesco.

E come Papa Francesco, dopo aver incontrato le vittime della tratta in una nostra comunità a Roma, aveva definito il mercimonio coatto un “vizio schifoso” così il governatore delle Marche ha scandito che la prostituzione “non dovrebbe esistere in alcuna forma”. E così come nella prefazione del mio libro “Donne crocifisse” Papa Francesco aveva rinnovato la richiesta di perdono alle schiave del racket a nome di tutti i cristiani, allo stesso modo Acquaroli ha ascoltato le testimonianze delle giovani ospiti che hanno descritto le torture subite da parte degli aguzzini e dei cosiddetti clienti che fomentano questo mercato vergognoso.

Il mio auspicio

Profonda è stata la commozione e grande l’attenzione del presidente al quale ho espresso il mio personale auspicio che su scala globale abbia luogo un “mea culpa” condiviso che unisca i popoli, le classi dirigenti, i governanti dei Paesi di provenienza, transito e destinazione della tratta. Da parte sua il Presidente della Regione Marche ha espresso la sua sincera vicinanza, rinnovando tutta la disponibilità come istituzione a compiere quanto possa servire per combattere il fenomeno della prostituzione coatta fortemente presente anche sulla costa marchigiana lungo le strade del mercimonio coatto.

Nel ringraziare il governatore ho auspicato che la Regione possa collaborare sempre più attivamente per una crescente opera di formazione sul tema della tratta, di educazione sentimentale delle nuove generazioni secondo l’ispirazione matura e consapevole in base alla quale l’amore si merita, non si pretende con la violenza o le pressioni psicologiche, né tantomeno si acquista. Ne deriva la centralità della trasmissione valoriale nelle scuole e in tutte le agenzie educative di un modello culturale e valoriale improntato al rispetto e alla responsabilità.

Nel sottolineare il meritevole impegno delle Prefetture e delle Forze dell’Ordine mobilitate a tenere alta la guardia, ho auspicato al tempo stesso rafforzarsi sempre più il capillare contrasto alle forme vecchie e nuove di racket quanto mai aggressive sulle nostre strade, nei locali e negli angoli bui della nostra cattiva coscienza collettiva e individuale. Nessuno potrà più dire di avere le mani pulite finché qualcuno continuerà a degradare in bancomat umani le più fragili e indifese delle creature, e cioè quelle “donne crocifisse” che don Oreste chiamava con affetto “le nostre sorelline”.

Come ci insegnano costantemente il Vangelo e il magistero pontificio, non c’è peccato tanto vergognoso da escluderci dalla fratellanza umana. Ogni atto, persino quello più ignobile come trafficare la carne dei nostri simili, può incorrere nella misericordia divina in presenza di un ravvedimento, di un’autentica richiesta di perdono e di un risarcimento del male fatto per impedire che alla ferita si aggiunga l’ingiustizia. La richiesta di perdono non è solo un gesto sacramentale di riparazione dell’anima ma anche un segnale comunitario di un cambiamento di rotta che faccia mutare prospettiva e criteri di valutazione all’intera società, perché nessuno è veramente al sicuro fino a quando coetanee delle nostre figlie e nipoti vengono mercanteggiate sui marciapiedi, nei locali e in rete.

La drammatica testimonianza di una ragazza salvata dalla tratta

La testimonianza ascoltata ha toccato il cuore di tutti noi presenti all’incontro, come sempre accade anche per me, dopo trent’anni di strada accanto a queste giovani martoriate.

“Avevo soltanto 14 anni quando mi convinsero a intraprendere quel viaggio della speranza per una vita migliore che poi si tramuterà nel viaggio dell’orrore. Non potevo sopportare di vedere mia mamma sempre in lacrime perché non riusciva a sfamare i miei quattro fratellini. Ogni giorno la sentivo ripetere che nostro padre era andato via per trovare un lavoro e poterci finalmente dare una vita normale. Ma giorni, mesi e anni passavano e da quella porta non lo abbiamo mai più visto rientrare. Gli unici che entravano a casa erano i nostri zii e cugini che prima violentavano mia mamma e, dall’età di tredici anni, iniziarono a farlo anche con me. Non c’era la possibilità di ribellarsi perché loro erano veramente cattivi, minacciavano di uccidere i nostri piccoli qualora avessimo chiesto aiuto o anche soltanto protestato. Anzi, dovevamo ringraziarli per gli stupri perché ci davano la possibilità di ricevere un po’ di latte e qualche pugno di riso! La mamma mi diceva: ‘Quando tornerà papà li ucciderà e noi saremo libere!’. Di mio padre, però, non arrivò mai nessuna notizia”.

Un incontro intriso di falsa speranza

“Un giorno, al mercato, mi avvicina una donna vestita molto bene e mi chiede: ‘Sei tu la ragazza nel villaggio che ha quattro fratellini e la mamma senza più il marito? So che state soffrendo molto, se volete posso aiutarvi, questo è il mio numero’. Corsi a casa da mamma con un po’ di gioia nel cuore riferendo dell’incontro e dicendo a mamma che la signora ben vestita mi aveva fatto un’ottima impressione e mi sembrava molto seria. Mia madre invece mi rimproverò sostenendo che non mi dovevo fidare di nessuno. Però, poi, io la convinsi ad incontrare questa donna. La signora venne a trovarci e ci portò del cibo, il latte, l’acqua nelle bottiglie e questa cosa ci sorprese tanto. Lei ci raccontò che faceva parte di una chiesa cristiana la quale aiutava le famiglie povere a riscattarsi portandole in Europa in modo che potessero lavorare. Europa? Non capivo bene dove fosse e quando mi mostrò una cartina mi sembrò un posto così lontano e anche così piccolo… Alla fine l’offerta sembrava l’unica possibilità per risolvere il nostro dramma. Sarei stata affidata a questa signora con la promessa di poter inviare a mia mamma i primi denari, già dopo due mesi. La decisione di lasciare la mia famiglia fu travagliata. Non dormimmo per discutere su tutte le ipotesi. Ricordo che, ad un certo punto, mamma esclamò: ‘E se fosse tutta una truffa e poi ti fanno sparire e ti fanno diventare una schiava?’. Io risposi: ‘Una schiava? Ma mamma, questa che stiamo vivendo ora è già una schiavitù e non penso ce ne sarà una più terribile di quella che stiamo sopportando!’”.

Il “rito” prima della partenza

“Così, dopo aver convinto mia madre, mi affidai a questa donna che mi procurò i documenti, i vestiti per il viaggio e mi chiese, prima di partire, di andare a fare una promessa nella sua chiesa. Davanti ad altre signore mi fece promettere di essere obbediente ai suoi ordini e di non tradire la sua fiducia, anche perché avrei poi messo in pericolo la vita della mia famiglia. Mi fece un taglio a segno di croce nella pancia e dietro la schiena e uno piccolo sul volto. Il 7 settembre partimmo di notte con un camioncino che lungo il tragitto si riempiva di altre mie coetanee. Nessuno chiedeva niente e nessuno si permetteva di curiosare sulla vita delle altre. Non posso però dimenticare una mia compagna, Mary, che ha viaggiato con me fino a Napoli. Con lei, pian piano, mi sono confidata scoprendo che anche lei aveva una storia simile alla mia e soprattutto nutriva le stesse speranze. Non avrei mai immaginato di dover affrontare un viaggio così spaventoso. Camminare a piedi per tanti chilometri… la mancanza di cibo e di acqua fino a dover mettere sulle labbra le mie urine… le violenze dei mercenari che ci hanno usato come bestie dicendoci che non avevamo capito il nostro destino… Eppure, continuavo a sperare che quel viaggio da incubo fosse solo il caro prezzo per arrivare alla meta tanto desiderata. Iniziare a lavorare”.

Le atrocità subite in Libia e la traversata del Mediterraneo

“Arrivate in Libia, siamo state nascoste dentro una specie di grande garage dove potevamo solo spostarci per fare i nostri bisogni e andare dietro un muretto quando gli uomini decidevano di violentarci. Questo periodo in Libia lo voglio dimenticare, cerco di rimuoverlo perché è stato il più brutto della mia vita. I miei cugini, a confronto, erano persone molto più tranquille di questi mostri che ci seviziavano mentre si ubriacavano. Ho attraversato il Mare Mediterraneo senza sapere di essere incinta e l’arrivo in Italia mi sembrava un miraggio. Nella mia testa, con le treccine ben tirate, erano stati nascosti i bigliettini con i numeri di telefono da utilizzare una volta arrivati a destinazione. Dopo due settimane giungiamo a Napoli. Era ora di chiamare quel numero nascosto tra i capelli. Ho ancora ben presente la disperazione nello scoprire che il mio viaggio non era concluso e che dovevo separarmi da quella che ormai era diventata come una sorella. Da quella sera non la rivedrò più e ancora conservo il suo fermaglio che mi lasciò come ricordo. La mia destinazione era Perugia. Finalmente incontro la mia padrona e gli chiedo: ‘Quando inizio a lavorare?’. Lei mi risponde: ‘Presto… dormi bene che domani sera inizi’. Le domando: ‘In cosa consiste il mio lavoro, di cosa mi devo occupare?’. In quel momento mi trovo dinanzi a tre donne, le madame, che iniziano a ridere e una di loro si rivolge a me dicendomi: ‘Puttana, vai a dormire che ti conviene!’”.

Lo shock nello scoprire il “lavoro” che avrebbe dovuto fare

“Mi sentii tanto umiliata, pensai che quello era il loro linguaggio e che non volevano ricevere troppe domande. Provo a chiedere alle altre ragazze presenti in casa ma non mi dicono niente fino alla sera seguente quando una giovane della mia stessa età mi lancia una specie di costume affermando: ‘Sbrigati, mettiti questo e non fare domande!’. Lo shock di quella nottata rimarrà impresso nella mia mente per sempre. Un anziano ci carica in macchina e ci porta in una strada buia. Le due compagne parlavano un dialetto (per me difficile da comprendere) e sorridendo mi ripetono di scendere e di stare vicina a loro. Iniziano ad avvicinarsi uomini in macchina e le ragazze conversano con loro alternandosi nell’entrare nelle auto. Io, invece, quella notte dovevo solo vedere come ci si doveva comportare. Non potevo credere ai miei occhi. Tutti quegli uomini di notte che facevano domande. Solo nei giorni successivi ne compresi il significato. Dentro mi sentivo già morta, schiacciata da un vortice che mi riportava sempre e solo ad essere usata, violentata, abbandonata nelle mani di nuovi orchi. Ricordare ora mi fa troppo male, vorrei solo dimenticare tutto quello che ho dovuto subire e patire in quelle prime giornate di inferno indescrivibile. La mia ribellione alla madame, con le botte e le torture; il mio malessere con quei maschi a cui non piacevo e così mi picchiavano anche loro; le compagne che mi offendevano ribadendo che ero una pazza a non obbedire alla madame e che mi avrebbero uccisa… La disperazione e il desiderio di morire erano già radicate dentro di me”.

L’incontro con don Aldo e la Comunità Papa Giovanni XXIII

“Una notte si avvicina una macchina. Un uomo, vestito di nero, prima mi sorride e poi scende di scatto dalla vettura. Noto che ha la tonaca. Subito in inglese mi dice: ‘Non avere paura, sono un pastore, sono qui per aiutarti!’. Le due compagne subito mi fanno un segnale che indicava l’ordine di allontanarmi da quella persona. E così, nonostante il sacerdote insistesse perché mi fermassi a parlare con lui, io non potevo. Dopo alcuni giorni tornò di nuovo. Si fermò in un momento che ero da sola e mi disse: ‘Sorella, io posso aiutarti… scappa da questa strada, dalla madame, da questo inferno…’. Mi chiese: ‘Chi hai a casa?’. Risposi già in lacrime: ‘Ho mia mamma e i miei fratellini’. E don Aldo: ‘Lo sa tua mamma che sei sulla strada?’. Io: ‘No! Assolutamente! Se lo sapesse morirebbe dal dolore!’. Il pastore mi chiese: ‘Sei cristiana?’ – ‘Sì, lo sono!’. Subito inizia ad intonare un canto nel mio dialetto. Non potevo credere che quel sacerdote sapesse i canti della mia Chiesa, nella mia lingua! Proprio per questo motivo quella sera riuscì a strapparmi un sorriso. Soggiunse: ‘Gesù questa notte ha ascoltato le tue preghiere e mi ha mandato a liberarti per avere una vita nuova! È come rinascere una seconda volta senza ricevere mai più violenze né cattiverie. Tu sei figlia di Dio, non sei una cosa e il Signore vuole che aiuti te stessa e la tua famiglia! Io ti sarò vicino come un padre. Fidati… scappa via con me!’. Accanto a lui c’era una signora che aveva la stessa stazza di mia mamma. Mi prese per mano e mi accarezzava ripetendo: ‘Vieni via con noi… io sarò la tua seconda mamma!’. Questa parola, ‘mamma’, mi faceva tanto piangere e così lei mi abbraccio forte. A quel punto don Aldo mi disse: ‘Se non scappi ora, poi non ti faranno più venire via… non perdere questa occasione!’. Tirò fuori una corona del rosario e allora capii che non mi stavano prendendo in giro. Dentro di me pensavo: ‘Peggio di così cosa mi può succedere, ormai?’. Allora entrai in auto con loro, tutta tremante, stretta alle braccia di quella donna, che si chiamava Marina”.

La rinascita

Grazie a Dio stavolta non mi ero sbagliata. Queste persone erano veramente mandate dal Signore per salvare me e la mia famiglia. Sono stata accolta e coccolata come una vera figlia ricevendo tante attenzioni che neanche mia mamma aveva potuto rivolgermi. Non è stato immediato riacquistare fiducia nel prossimo. La domanda che ogni tanto mi assaliva era: ‘Ma queste persone perché fanno tutto questo per me? Cosa ci guadagnano a stare con noi tutti i giorni della settimana vivendo con noi e dovendo sopportarci?’. Capivo la motivazione religiosa, ma fino ad un certo punto, visto che anche la mia madame mi adescò in nome di un suo Dio e mettendo in mezzo anche il Cristo. Non è stato facile ritornare a vivere, a stare bene senza doversi continuamente guardare alle spalle. Ora sono tranquilla, nonostante i miei problemi di salute, il dramma di avere le tube distrutte che mi impediscono di avere figli, l’obesità che non riesco a curare (quando sono partita dal mio Paese ero magrissima, ora peso più di cento chili) e gli incubi notturni dove c’è sempre qualcuno che in sogno viene a farmi del male… Ora prendo anche delle medicine per dormire. Chissà se ritornerò a stare veramente bene! Forse mai. Però ciò che mi dà un po’ di speranza è sapere che la mia vita e la mia testimonianza di ‘martirio’ non sono vane ma possono servire per far comprendere che non siamo degli oggetti da barattare e di cui approfittare ma delle persone da salvare”.