Russo (Amnesty): “Ecco perché le donne sono le più discriminiate nel braccio della morte”

L’intervista al presidente di Amnesty Italia, Emanuele Russo, sulla Giornata mondiale ed europea contro la pena di morte, quest’anno dedicata alle donne

Oggi, 10 ottobre, si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale ed europea contro la pena di morte. L’edizione 2021 è dedicata alle donne che sono maggiormente discriminate in molti Pesi del mondo e spesso impossibilitate a difendersi dinanzi a un tribunale equo.

Le donne sono maggiormente discriminate

“Nonostante le donne rappresentino una piccola percentuale delle condanne a morte a livello mondiale, la discriminazione basata sul genere continua a colpire le donne a tutti i livelli del sistema giudiziario penale”, si legge nella dichiarazione congiunta della Segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, e dell’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. “In alcuni paesi – prosegue il comunicato del Consiglio d’Europa – le donne sono condannate in numeri maggiori rispetto agli uomini per reati legati alla moralità sessuale, come l’adulterio. Inoltre, le circostanze attenuanti connesse alle violenze e agli abusi basati sul genere sono raramente prese in considerazione durante il procedimento penale”.

Verso l’abolizione mondiale della pena di morte

Ogni anno si registrano nuove tappe verso l’abolizione mondiale della pena di morte. Nel 2020, per il terzo anno consecutivo, nel mondo sono state eseguite esecuzioni in meno di 20 Paesi. Sul fronte opposto, 176 Paesi nel mondo, che rappresentano il 91% degli Stati membri delle Nazioni Unite, non hanno eseguito nell’ultimo anno nessuna pena capitale. A questi si aggiunge la Sierra Leone che ha abolito la pena di morte lo scorso 8 ottobre e la Virginia (negli Stati Uniti) che quest’anno si è aggiunta al novero degli Stati che hanno abolito la pena di morte.

“L’intenzione del presidente Biden di abolire la pena di morte a livello federale negli Stati Uniti, nonché la moratoria sulle esecuzioni imposta dal procuratore generale degli Stati Uniti, sono passi importanti per il futuro”, evidenzia il Consiglio D’Europa. “L’Armenia ha ratificato il secondo protocollo facoltativo sull’abolizione della pena di morte e il Kazakhstan sta completando il processo di ratifica. Esortiamo la Bielorussia – unico Paese in Europa dove vige ancora la pena capitale – a procedere all’abolizione”.

La pena di morte in Italia

La pena di morte in Italia è stata abolita nel 1994. Attualmente lo Stato italiano non prevede la pena di morte in nessun caso. La prevedeva invece il codice penale militare di guerra. La pena capitale era già stata bandita nel 1889 e ripristinata con una legge del 1926. Dopo la caduta del fascismo venne abolita, tranne che per i reati fascisti e di collaborazione. Nel 1945 si ammise nuovamente come misura temporanea per gravi reati. Fra il 26 aprile 1945 ed il 5 marzo 1947 vennero giustiziate 88 persone per avere collaborato con i tedeschi. Furono le ultime esecuzioni effettuate in Italia. Con la Costituzione della repubblica italiana del 27 dicembre 1947, la pena capitale fu bandita sia per i reati comuni, sia per i reati militari commessi in tempo di pace.

Il report 2020 di Amnesty International

Secondo il report stilato annualmente da Amnesty International, ong in prima linea da anni nella richiesta di una moratoria mondiale sulla pena di morte, nel 2020 sono state registrate 483 esecuzioni per condanne a morte in 18 Stati. Si tratta del dato più basso registrato in oltre un decennio, in calo del 26% rispetto al 2019 e del 70% rispetto al picco di 1.634 casi registrato nel 2015. Fra le persone giustiziate vi erano 16 donne.

Amnesty International è un’organizzazione non governativa internazionale (ONG) fondata da Peter Benenson nel 1961 impegnata nella difesa dei diritti umani. Lo scopo di Amnesty International è quello di promuovere, in maniera indipendente e imparziale, il rispetto dei diritti umani sanciti nella “Dichiarazione universale dei diritti umani” e quello di prevenirne specifiche violazioni. Nello specifico, l’art 3 della Dichiarazione sancisce: “Ogni individuo ha diritto alla vita. Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato. La pena di morte è stata esclusa dalle pene che i tribunali sono autorizzati a comminare”.

Riconfermato il Presidente di Amnesty, Emanuele Russo

Per celebrare la giornata odierna, In Terris ha intervistato il dottor Emanuele Russo. Attivista di Amnesty International dal 2004, è stato rieletto quest’anno presidente di Amnesty International Italia. La nomina al termine della XXXVI Assemblea generale dell’associazione, svoltasi a Roma il 12 e 13 giugno e alla quale hanno preso parte – in presenza e in collegamento – oltre 300 tra delegati e soci singoli.

Coordinatore della Campagna Globale per l’Educazione a livello nazionale, Russo è anche esperto di CIFA per l’educazione ai diritti umani. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Relazioni Internazionali e Studi Politici presso l’Università degli Studi di Torino. Si occupa principalmente di educazione ai diritti umani a livello universitario e secondario superiore. È membro del Comitato Direttivo della Sezione italiana dal 2009 e presidente della Commissione nazionale diritti umani e società del Movimento.

Emanuele Russo, presidente di Amnesty International Italia

L’intervista a Emanuele Russo, presidente Amnesty International Italia

Dottor Russo, quando ha iniziato e perché il suo impegno in Amnesty Italia?
“Ho iniziato ad interessarmi ad Amnesty dopo i fatti di Genova 2001. Sono diventato attivista nel 2003, da allora ho sempre pensato che sia un dovere di ognuno di noi dare il proprio contributo per migliorare la società in cui viviamo”.

Cosa significa per lei essere stato rieletto Presidente?
“Significa principalmente rinnovare il mio impegno a servire il Movimento. Essere parte di Amnesty International è già di per sé un grande privilegio, rappresentarla nel mio paese una grossa responsabilità”.

Qual è l’importanza di celebrare a livello mondiale una giornata contro la Pena di Morte?
“Significa battersi perché il diritto alla vita non sia messo a repentaglio da alcuna autorità costituita, il primo passo per una tutela reale dei diritti umani. Amnesty International si oppone incondizionatamente contro la pena di morte, ritenendola una punizione crudele, disumana e degradante ormai superata, abolita nella legge o nella pratica (de facto), da più di due terzi dei paesi nel mondo. La pena di morte viola il diritto alla vita, è irrevocabile e può essere inflitta a innocenti. Non ha effetto deterrente e il suo uso sproporzionato contro poveri ed emarginati è sinonimo di discriminazione e repressione. Oggi, più di due terzi dei paesi al mondo ha abolito la pena capitale per legge o nella pratica. Nel 2020 Amnesty International ha registrato 483 esecuzioni in 18 stati, con un decremento del 26 per cento rispetto alle 657 esecuzioni registrate nel 2019. Si tratta del più basso dato registrato nell’ultimo decennio”.

In quali Paesi è più frequente la pena di morte e perché?
“La maggior parte delle esecuzioni è stata registrata, nell’ordine, in Cina, Iran, Egitto, Iraq e Arabia Saudita. Nello specifico, l’88% delle esecuzioni si sono verificate in quattro Paesi mediorientali: almeno 246 in Iran, dove la pena di morte è sempre più usata come arma di repressione politica contro dissidenti e minoranze etniche, 107 in Egitto, 45 in Iraq e 27 in Arabia Saudita. Negli Stati Uniti la pena è stata applicata 17 volte. Il totale di 483 esclude le migliaia di esecuzioni che Amnesty International crede siano state effettuate in Cina, dove i dati sulla pena di morte sono classificati come segreto di Stato. Pesa anche l’accesso estremamente limitato alle informazioni in Corea del Nord e Vietnam, che si ritiene applichino in larga misura le condanne capitali. La giornata – e il nostro report annuale – punta i riflettori su queste situazioni, spesso passate sotto silenzio”.

Come la pandemia ha influito sul numero e la frequenza delle esecuzioni capitali?
“Il numero complessivo delle condanne a morte (1477) imposte in tutto il mondo nel 2020 – di cui Amnesty International ha notizia – è crollato del 36% rispetto al 2019, in parte perché la pandemia di Covid-19 ha causato sospensioni e ritardi nei procedimenti penali. La pandemia da COVID-19, oltre ad aver contribuito alla diminuzione nel numero delle esecuzioni capitali imposte ed eseguite, ha però inasprito l’intrinseca crudeltà di questa pena. Il numero delle esecuzioni documentate è diminuito del 26% rispetto al dato totale del 2019, raggiungendo il valore più basso registrato in dieci anni e confermandone la ininterrotta riduzione, anno per anno, in atto dal 2015. Il numero dei paesi che hanno eseguito condanne a morte (18), e la cui attività trova riscontro, è diminuito di 2 rispetto al 2019, e ciò attesta che la ripresa delle esecuzioni è restata limitata ad una minoranza di stati. Il calo significativo è stato dovuto, prima di tutto, ad una consistente riduzione delle esecuzioni in Iraq e Arabia Saudita, due paesi che storicamente hanno fatto registrare alti valori nelle esecuzioni; a questo si aggiungono, in minor misura, le interruzioni che sono state determinate dalla pandemia da COVID19. Negli Stati Uniti d’America l’impennata delle esecuzioni federali è stata bilanciata, nel conteggio nazionale, principalmente dalla sospensione in alcuni stati delle esecuzioni, o da una più lenta esecuzione degli ordini di esecuzione, a causa della pandemia. Sei dei rinvii giudiziali concessi nel 2020 negli Stati Uniti sono da ascriversi proprio a quest’ultima. A Singapore le esecuzioni sono state sospese a causa dei contenziosi, compreso l’effetto delle restrizioni per fronteggiare la diffusione del COVID-19”.

Quale campagna porta avanti quest’anno Amnesty contro la pena di morte?
“Amnesty International ha richiamato l’attenzione sulla situazione delle donne nei bracci della morte, alle quali viene negata giustizia per la prolungata violenza fisica e sessuale che hanno subito, che in molti casi ha preceduto e provocato i crimini per cui sono state condannate. Molte donne vengono condannate a morte infatti al termine di processi superficiali e iniqui che non seguono procedure corrette né considerano circostanze attenuanti i lunghi periodi di violenza e aggressioni sessuali cui sono andate incontro. Condannandole a morte, i sistemi giudiziari non solo comminano una pena orribile e crudele ma fanno anche pagare loro il prezzo della mancata azione contro la discriminazione che hanno subito. In alcuni stati, tra cui il Ghana, l’obbligatorietà della pena di morte per alcuni reati come l’omicidio impedisce alle donne di invocare la violenza di genere e la discriminazione subite come circostanze mitiganti. In Malesia la maggior parte delle donne nei bracci della morte – tra cui molte straniere – sono state condannate per reati di droga, per i quali vige l’obbligatorietà della condanna alla pena capitale. In molti casi, la mancata azione delle autorità rispetto a denunce specifiche così come alle prassi discriminatorie ha dato luogo a una cultura di violenza che le donne che ora sono nei bracci della morte sono state costrette a subire, continuando a essere emarginate anche nell’ambito del sistema di giustizia penale. Inoltre, la mancanza di trasparenza sull’uso della pena di morte fa sì che le storie che conosciamo siano solo la punta dell’iceberg”.

Ci racconta delle storie che l’hanno colpita fortemente in merito a questo argomento?
“Noura Hossein Daoud era stata condannata a morte nell’aprile del 2017 in Sudan per l’omicidio dell’uomo che era stata costretta a sposare quando aveva 16 anni e che, tre anni dopo il matrimonio, l’aveva stuprata, assistito da due fratelli e un cugino. Grazie a una campagna di Amnesty International e di altre organizzazioni, la condanna a morte di Noura è stata commutata. Altre non sono state così fortunate. Infatti Zeinab Sekaanvand, una donna di origini curde, è stata messa a morte nel 2018 in Iran. Era andata in sposa da bambina e aveva subito per anni violenza sessuale da parte del marito e del cognato. Arrestata all’età di 17 anni e accusata dell’omicidio del coniuge, era stata condannata alla pena capitale al termine di un processo fortemente iniquo”.

Come sezione italiana vi state occupando di qualche particolare attuale?
“Sì. Tra i tanti, è significativa la storia di Ahmadreza Djalali, ricercatore esperto di Medicina dei disastri e assistenza umanitaria un tempo presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara, che è stato condannato in via definitiva a morte da un tribunale iraniano con l’accusa di spionaggio. E’ stato arrestato dai servizi segreti mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz. Si è visto ricusare per due volte un avvocato di sua scelta. Le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui confessava di essere una spia per conto di un governo ostile. Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi. Ahmad avrebbe anche urgente bisogno di cure mediche specialistiche. Nell’ultimo anno, tre diversi esami del sangue hanno indicato che ha un numero basso di globuli bianchi. Un medico che lo ha visitato in carcere all’inizio del 2019 ha detto che deve essere visto da medici specializzati in ematologia e oncologia in un ospedale fuori dal carcere. Dal suo arresto il 26 aprile 2016, ha perso 24 kg e ora pesa 51 kg. Anche grazie alla nostra petizione, e all’interesse dell’opinione pubblica italiana e internazionale, l’esecuzione del dottor Djalali è stata sospesa temporaneamente. Dopo 140 giorni di isolamento, è stato di nuovo trasferito in cella con altre persone ma non può ancora fare telefonate ai suoi familiari né in Iran né in Svezia. Ahmad deve essere rilasciato subito, le accuse contro di lui sono infondate!”.

Cosa altro c’è da fare affinché la pena di morte venga eliminata in tutto il mondo?
“Non smettere di considerarla una priorità. La strada intrapresa è quella giusta, ma è ancora lunga. Noi, però, non ci fermeremo…”