Un giardino della memoria nel luogo del sacrificio degli uomini e delle donne dello Stato uccisi dalla mafia. A via Mariano D’Amelio, dove trentuno anni fa persero la vita in un attentato il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, la prima agente donna della Polizia di Stato a morire in servizio, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, lì dov’era il cratere causato dall’esplosione dell’autobomba, anni fa era già stata piantumata una piantina di olivo proveniente da Betlemme. Quel simbolo di pace, apposto dove col tritolo venne scritta una delle pagine più buie della storia dell’Italia del secondo Dopoguerra, nemmeno due mesi dopo la strage di Capaci in cui perse la vita il magistrato Giovanni Falcone, per il quale il Comune di Palermo ha avviato il percorso per la tutela come albero monumentale, potrà arricchirsi della compagnia di altre piante che rendano quello spazio la sede della rigenerazione civile della città e del nostro Paese. Nell’attesa che possa andare a sedersi, sotto le verdi fronde, anche la verità, giudiziaria e storica, sull’omicidio del giudice Borsellino.
In occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio, Interris.it ha intervistato l’esperto di strategie di lotta al crimine organizzato Vincenzo Musacchio. Tra i più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali e autore di numerosi saggi, criminologo forense e giurista, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (Riacs) di Newark, negli Usa, Musacchio è ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra.
Qual è stato l’impatto, all’epoca, della strage di via D’Amelio, ad appena 57 giorni di distanza da quella di Capaci?
“L’impatto è stato devastante perché conteneva il sé gli elementi dell’incredulità e quelli del terrorismo. Il primo si espresse con lacrime e rabbia. Il secondo con la paura che lo Stato democratico stesse perdendo la battaglia contro la mafia. Per il povero Paolo Borsellino iniziarono 57 giorni di tormento e di isolamento totale che lo porteranno ad usare termini come ‘stagione dei veleni’ e ‘nido di vipere’ riferendosi soprattutto ai suoi colleghi e al ’palazzo dei veleni’ dove prestava servizio”.
A che punto siamo con la ricerca della verità sulla morte del giudice Borsellino?
“Non credo, purtroppo, sia vicina. Ritengo che la strada da percorrere sia ancora lunga. Questo però non può e non deve voler dire che dobbiamo smettere di ricercarla. Abbiamo l’obbligo morale di persistere in questo intento perché lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari. In tanti hanno ostacolato attraverso azioni di depistaggio le indagini e i processi, questo ha inesorabilmente allontanato dall’accertamento dei fatti. La storia di via D’Amelio è la storia di una grande bugia di Stato che purtroppo continua dal 19 luglio 1992 e che spero tanto un giorno termini e si possa conoscere la verità”.
Ci può descrivere la figura dell’uomo e del magistrato Paolo Borsellino?
“Non ho avuto il tempo materiale per poterlo conoscere ma l’ho ascoltato ad un convegno e di lui sfortunatamente ricordo il sorriso triste dopo la morte di Giovanni Falcone. Chi lo ha conosciuto, come ad esempio Antonino Caponnetto, me lo ha raccontato sempre con il suo sorriso sicuramente non triste. Caponnetto mi raccontò del forte legame con la mamma. Era un figlio davvero premuroso, un papà affettuoso, un amante del mare e del ciclismo ma soprattutto era un magistrato che ha dedicato la sua vita al suo lavoro fino alla morte. Lo colloco sicuramente nell’Olimpo di coloro che hanno combattuto contro la mafia a viso aperto e a schiena dritta”.
Qual è l’eredità professionale, culturale ed etico-morale di Paolo Borsellino?
“Credo che questa eredità nel suo complesso si possa riassumere in una sua lezione agli studenti che è quasi un testamento spirituale per i posteri e riguarda i rapporti tra mafia e politica. ‘L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato quindi quel politico è un uomo onesto. E no, questo discorso non va perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire, beh, ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però siccome dalle indagini sono emersi altri fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato quindi è un uomo onesto. Il sospetto dovrebbe indurre soprattutto i partiti politici quantomeno a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati’. In pratica ci ha detto che l’antidoto principale per colpire mortalmente la mafia è la cultura della legalità e che occorre puntare sull’onestà e sui giovani per vincere il cancro mafioso prima che metastatizzi implacabilmente”.
Cosa ha significato, per la storia del nostro Paese, la celebrazione del maxiprocesso?
“Nella lotta alla criminalità organizzata, dal punto di vista investigativo e giudiziario, il ‘pool antimafia’ e il conseguente ‘maxiprocesso’, a mio giudizio, ad oggi, restano un esempio insuperato e forse insuperabile. Fu una geniale intuizione di Rocco Chinnici continuata poi da Antonino Caponnetto che con la successiva esperienza e tenacia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino portò al primo grande processo contro la mafia riconosciuta come associazione criminale. Il maxiprocesso del 1986 terminò con pesanti condanne mai viste prima: diciannove ergastoli e pene detentive per un totale di 2.665 anni di reclusione, tutte confermate dalla Cassazione. Ha significato e rappresentato la prima grande sconfitta giudiziaria per Cosa Nostra fino ad allora soltanto scalfita ma mai colpita a morte. Il messaggio che arrivò a noi giovani di allora fu che la mafia poteva essere sconfitta”.
L’arresto di Matteo Messina Denaro, trent’anni dopo quello di Totò Riina, ha segnato la fine di Cosa nostra in Sicilia?
“È stato un buon risultato da parte dello Stato. La lotta alla mafia però non termina. Le cosche come abbiamo visto in questi mesi si sono già riorganizzate. Per questo lo Stato non può e non deve abbassare la guardia. Non dobbiamo dimenticare che intorno a Matteo Messina Denaro c’era una rete di protezione e di complicità molto ampia composta di faccendieri, politici, funzionari di Stato, membri della massoneria. Lo abbiamo assicurato alle patrie galere, adesso però dovremmo arrestare anche tutti i suoi complici soprattutto quelli all’interno delle istituzioni”.
Come sono le mafie oggi e a che punto è la lotta a queste organizzazioni?
“Le mafie oggi assomigliano sempre di più a multinazionali che operano nei mercati globali ricercando quelli più redditizi. In questo la mafia è cambiata non tanto come essenza quanto come pervasività. In passato ricercava a livello localistico mercati che poteva controllare, oggi lo fa al livello transnazionale e servendosi anche di menti sopraffine. Le nuove mafie sono camaleontiche e si adattano all’istante alle nuove circostanze che le si presentano. La tecnologia ha ampliato la capacità dei mafiosi di operare in vari settori dell’economia e della finanza. Le mafie moderne utilizzano tecnologie di comunicazione sempre più evolute per sfruttare al massimo le loro opportunità di profitto. I vantaggi della tecnologia digitale per i mafiosi includono l’anonimato, la possibilità di prendere parte a comunicazioni in tempo reale ma crittografate, la possibilità di raggiungere un pubblico più ampio (in termini di vittime e clienti), la mobilità geografica e la capacità di controllare ed operare nei mercati da un dispositivo mobile. Tutte caratteristiche che sono difficili da combattere con gli strumenti a disposizione oggi da parte delle forze dell’ordine e della magistratura. Per sconfiggere queste nuove mafie dobbiamo migliorarci ancora tanto”.
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