Dal grano alla pasta: la grande sfida del Made in Italy

Più pasta nel mondo ma in Italia se ne mangia meno. Pasquale De Vita (Crea) a Interris.it: "I sostegni alla produzione ci sono ma aumentano anche i costi"

Pasta grano Made in Italy
Foto di Paz Arando su Unsplash

Non solo produzione a scopo commerciale ma vero e proprio emblema della cultura nazionale. La pasta è l’alimento per eccellenza della tradizione gastronomica italiana, sia sul piano prettamente culinario che come una sorta di rappresentazione dell’italianità, grazie alla convergenza di semplicità e fantasia. Del resto, cuocere un piatto di pasta è solo apparentemente una procedura meccanica. Nel dare una connotazione di sapori al nostro piatto viene fuori una vera e propria forma d’arte, talmente diversificata da far sì che ogni regione del nostro territorio possa vantare una propria peculiarità. Eppure, come avviene per molti altri settori, anche quello della pasta risente dei tempi che cambiano. Non solo a livello sociale ma anche ambientale.

Ed è ancora una volta una convergenza a poter fare la differenza. Stavolta, però, in modo negativo. Le sfide che attendono la produzione di pasta nel prossimo futuro nascono infatti dalla materia prima. E se il grano è stato al centro del dibattito geopolitico a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, lo è – da tempo – anche per quel che riguarda l’innovazione delle tecniche agricole. Un tema che potrebbe dire molto, da qui a breve, su una delle componenti primarie della nostra cultura alimentare

Nel World Pasta Day, Interris.it ne ha parlato con il dottor Pasquale De Vita, ricercatore Cerealicolture e Colture Industriali del Consiglio per la ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’Economia agraria (Crea).

 

Dott. De Vita, l’accostamento Italia-pasta viene talmente naturale da aver portato, negli anni, quasi a sottovalutare l’importanza di tale prodotto. Invece il suo impatto economico è piuttosto rilevante…
“L’Italia è il primo produttore di pasta nel mondo. Circa 3,6 milioni di tonnellate di pasta prodotte in Italia. Seguono gli Stati Uniti e la Turchia, che sono produttori crescenti. Di quello che produciamo, circa il 60% lo esportiamo. Ed è questo che rafforza l’industria pastaria italiana. È sulle esportazioni che si basa il maggior profitto. All’estero, solitamente, il prezzo è più giusto. Nel nostro Paese è spesso un ‘prodotto-esca’, costa poco. Chiaramente, l’Italia non è autosufficiente nella produzione di grano, quindi lo importa, cosa che ha sempre fatto, storicamente, da quando è iniziata la produzione di pasta secca. Continuiamo l’import per circa 2-2,5 milioni di tonnellate di grano duro”.

Lo stop all’accordo sul grano tra Ucraina e Russia ha provocato effetti tangibili sulla produzione italiana?
“La guerra c’entra in modo relativo. L’Italia, per quel che riguarda la produzione di pasta, non dipende né dal grano russo né da quello ucraino. Prevalentemente è il Canada il principale fornitore. A seguire la Francia, il sud degli Stati Uniti, l’Australia, la Turchia. C’è però un aspetto importante da considerare”.

Ovvero?
“Se nel mondo si mangia costantemente sempre più pasta, in Italia se ne mangia sempre di meno. Per fare un esempio, negli ultimi 25 anni, ossia il tempo trascorso da quando ho iniziato il mio lavoro nel campo, il consumo è passato da 29 chili pro capite annui degli anni Novanta agli attuali 23. Nello stesso periodo, a livello internazionale, il consumo è più che raddoppiato: da circa 7-8 milioni di tonnellate a 16-17 milioni. Quindi, mentre in Italia si mangia meno pasta, nel mondo se ne mangia di più, soprattutto per una presa di coscienza sui componenti nutrizionali e sul costo”.

In sostanza, non solo importatori ma anche produttori. E questo quanto pesa sul Made in Italy?
“Questo è un dato significativo. Non solo gli Stati Uniti o la Turchia, ma anche Paesi del Nord Africa, come l’Egitto, hanno cominciato a produrre la pasta. Per mantenere la competitività e l’attrattività del Made in Italy, della pasta italiana, occorre competere con un mercato che lavora molto sul basso costo. Lo standard qualitativo del prodotto nostrano dev’essere invece sempre alto, a partire dalla materia prima”.

Quanto influisce la “distrazione” dei consumatori italiani rispetto al loro prodotto di punta?
Negli Stati Uniti ci sono grossi impianti di pastificazione, alcuni dei quali con tecnologia o manualità italiana. Il problema è che nel prossimo futuro, qualora lo standard qualitativo del prodotto italiano non dovesse mantenere i suoi livelli, c’è il rischio di perdere mercato. Anche perché i consumatori italiani sono ‘distratti’ da altre preferenze nel supermercato, specie per quel che riguarda alimenti sostitutivi, come la pasta di legumi. È anche vero, però, che il consumo di generi alimentari è cambiato nel tempo. I prodotti primari, come pane, pasta e latte, vanno a diminuire rispetto ad altri secondari.

Senza contare l’impatto dei cambiamenti climatici. Quanto potrebbero pesare sulle coltivazioni e sulla realizzazione del prodotto finito?
“Per la verità gli effetti si sono sentiti già quest’anno. I raccolti sono stati fortemente influenzati dai cambiamenti climatici, con impatti già evidenti sulla produzione. E questo mette in difficoltà le aziende agricole per quel che riguarda la coltivazione. Poi, chiaramente, avendo meno materia prima in Italia, si è costretti a importarne di più dall’estero per poter mantenere quei volumi di pasta da esportare nel mondo. Lo scorso anno abbiamo avuto un record negativo di produzione: dai 4-4,5 milioni di tonnellate di produzione media degli ultimi decenni, nel 2022 si è passati a 3,5 milioni. E quest’anno si è saliti appena al 3,8, comunque al di sotto della media di lungo periodo”.

Possibili paracadute?
“Le aziende agricole vivono in generale un momento di incertezza, anche in virtù della volatilità del prezzo del grano che non offre un parametro di riferimento fisso. Tra l’altro, negli ultimi anni, tra Covid e guerre il prezzo dei mezzi tecnici, dagli agrofarmaci al carburante, è aumentato moltissimo. Le produzioni sono basse, l’impatto del clima è forte e, quindi, ci sarebbe l’opportunità di mettere in pratica le tecnologie dell’agricoltura digitale o di precisione che possono aiutare l’agricoltore a produrre di più spendendo meno”.

Ed è un’ipotesi fattibile? Ci sono finanziamenti dai quali attingere?
“Si tratta di ottimizzare al meglio i mezzi tecnici per ridurre i costi e massimizzare il profitto. Per far questo, esistono i finanziamenti della Politica agricola comunitaria, che finanzia le aziende agricole con i cosiddetti aiuti PAC, i quali però richiedono dei comportamenti, da parte dell’agricoltore, rispettosi dell’ambiente. Questo per ridurre l’impatto e favorire il passaggio dall’agricoltura tradizionale a quella biologica. Si tratta però di ulteriori tasselli che rendono la vita dell’agricoltore ancora più complicata. Se in luogo di un erbicida vietato si è costretti a utilizzare un mezzo meccanico, c’è il rischio che vi sia una ricaduta negativa sui costi dell’energia o sulla produzione stessa”.

La ricerca ha offerto, o potrebbe offrire, dei supporti specifici alla produzione o anche in questo campo esistono delle incognite?
“La ricerca sta cercando di mettere a disposizione degli agricoltori delle soluzioni che possano aiutarli a risolvere il problema delle infestanti senza utilizzare erbicidi. Oppure di fare una produzione di grano che abbia caratteristiche tecnologiche buone riducendo l’applicazione di fertilizzante. Si tratta però di supporti che hanno bisogno di essere finanziate e che richiedono tempi ampi. Gli aiuti ci sono, la Comunità europea li mette a disposizione, così come le Regioni con i Piani di sviluppo rurale che finanziano agricoltori che adottano l’agricoltura di precisione o tecniche di coltura conservativa, richiedendo però il rispetto di determinate regole. E questo aumenta la burocrazia, e i costi, attorno alla coltivazione di un ettaro di grano. Inoltre, non è detto che i risultati ottenuti siano poi gli stessi”.