Frisoni (Apg23): “La funzione educativa del teatro per i ragazzi delle comunità terapeutiche”

Interris.it ha intervistato la responsabile del servizio arte della Comunità Papa Giovanni XXIII, Emanuela Frisoni, su come l'arte e la recitazione possano aiutare i ragazzi nel loro cammino nelle comunità terapeutiche

Emanuela Frisoni nella piece teatrale "Dove lo butto". Foto: Apg23

“Essere voce di chi non ha voce” attraverso l’arte è uno dei motivi di fondo del percorso artistico nato dal cammino di condivisione della Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) fondata da don Oreste Benzi. L’arte intesa come mezzo privilegiato per portare la bellezza e i valori di una vita condivisa; e come racconto di un cammino in cui tutti possono esprimere la propria originalità e mettersi in gioco attraverso processi creativi e di integrazione.

Tra i compiti del Coordinamento Arte della Apg23 vi è anche quello di realizzare produzioni artistiche tramite le quali raccontare temi cari e rappresentativi della Comunità e costruire nuove narrazioni portando voci e storie delle vittime del nostro tempo. In oltre 20 anni, sono stati realizzati spettacoli teatrali, concerti, un cartoon sulla figura di Sandra Sabattini, laboratori teatrali, musicali, libri e video.

Tutto è nato dall’intuizione di don Oreste Benzi di portare il teatro nelle comunità terapeutiche per adolescenti con problemi di dipendenze e di usarlo come un nuovo strumento di crescita per i ragazzi. Interris.it ha intervistato la responsabile del servizio arte della Papa Giovanni XXIII, Emanuela Frisoni, su come l’arte e la recitazione aiutino i ragazzi delle comunità terapeutiche.

Emanuela Frisoni e la locandina dello spettacolo teatrale “Nemmeno con un fiore” per sensibilizzare sulla violenza contro le donne. Foto e immagine: Apg23

L’intervista a Emanuela Frisoni (Apg23)

Parliamo un po’ di te: come è nato il servizio teatro?

“Sono un’educatore professionale che fa parte della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata dal Servo di Dio, don Oreste Benzi. Negli anni si sono aggiunte una serie di titoli di formazioni a fianco di attori e registi professionisti, soprattutto del mio territorio, il Riminese. Intorno agli anni 2000 ragionai insieme a don Oreste – che era il sacerdote della mia parrocchia, la Grotta Rossa di Rimini – su come impiegare la mia passione per il teatro. Lavoravo già da una decina d’anni nelle comunità terapeutiche dell’APG23 con gli adolescenti. Avevo inoltre fatto una scuola di alta formazione presso l’università di Bologna incentrata sul teatro applicato in contesti educativi e riabilitativi. Era stato un percorso molto interessante durato due anni che teneva insieme sia la parte teorica, sia la parte pratica in ‘realtà di frontiera’ in cui si utilizzava il teatro come strumento di rinascita e di riscatto, con finalità (tra virgolette…) terapeutica”.

In che senso “terapeutica”?

“Non nel senso medico o farmacologico del termine. Ma in senso ampio: il teatro e la recitazione infatti offrono occasioni di benessere perché le persone possono costruire una nuova narrazione di se stessi. E’ anche un’occasione per reinterpretare la dinamica all’interno di un gruppo in cui si vive o una rilettura di se stessi. In questo senso il teatro è ‘curativo’ perché offre l’occasione di rimettersi in gioco. Negli anni 2000 avevo tenuto due spettacoli con i ragazzi delle comunità terapeutiche dell’associazione. Si rivelò un’esperienza potentissima in cui i ragazzi misero un’energia fuori dal comune. Per questo, don Oreste mi esortò a continuare e ad investire sull’arte come strumento terapeutico. Da educatore esterno, giravo da struttura a struttura per animare e promuovere questo nuovo progetto. Erano gli anni in cui nella Comunità Papa Giovanni stava nascendo il servizio musica; c’era quindi una grande sensibilità verso i nuovi strumenti educativi di tipo artistico. L’obiettivo era quello di integrarli all’interno delle metodologie già presenti nelle comunità terapeutiche – presenti sul territorio riminese già da una ventina d’anni – quale strumento in più per aiutare i ragazzi”.

L’intuizione di don Oreste Benzi si dimostrò fondata?

“Sì. Il don è sempre stato profetico: dopo tanti anni di pratica posso dire che il teatro ha aiutato tanti ragazzi, anche quelli inizialmente scettici o particolarmente chiusi”.

Come ti definiresti: attrice teatrale o educatrice di ragazzi?

“Nasco come educatrice, ma preferisco definirmi una educ-attrice: utilizzo lo strumento teatrale come oggetto di mediazione e di lavoro all’interno dei processi educativi e di recupero della persona”.

Perché far fare teatro ai ragazzi delle comunità terapeutiche? In che modo li aiuta?

“I ragazzi vengono aiutati sotto molteplici aspetti. Primo: il teatro è uno strumento facilitatore all’interno di un gruppo perché smuove dinamiche nuove, vincendo anche dei pregiudizi e delle stereotipie che si possono venire a creare all’interno dei gruppi dei percorsi terapeutici. Perciò anche un ragazzo etichettato come lo ‘sfigato’ del gruppo, nella recitazione tira fuori una natura creativa e interessante. Il secondo aspetto è che il teatro permette di lavorare sull’atteggiamento di chiusura o di ‘corazza’ che a volte – specie gli adolescenti –  si indossa per non vedere le proprie fragilità. Ma questa ‘scorza’ impedisce di vedere anche la parte più genuina e libera di noi stessi. La recitazione paradossalmente – e questo è il terzo aspetto positivo – aiuta a togliersi le maschere. Ognuno di noi indossa una maschera, ma in teatro ci si spoglia dei ruoli convenzionali e precostituiti, favorendo al contrario lo sviluppo della nostra parte creativa. Una parte che tutti abbiamo ma che spesso soffochiamo perché per diventare grandi sembra sia necessario rinunciare a quella parte un po’ fantastica, quali infantile. Ma non è così! La parte creativa è naturale e necessaria all’uomo per vivere. Va solo alimentata, indirizzata. Non tutti siamo portati a fare teatro, però la dimensione del sogno, del racconto, immaginare gli altri in un’altra maniera… sono tutti aspetti che vanno alimentati. Molti ragazzi recitando vengono fuori per quello che sono. Superando le resistenze iniziali, buttandosi in un’esperienza per molti del tutto nuova, si accorgono del bisogno che hanno di giocare, di recuperare quella parte sana di sé di leggerezza e di bellezza delle cose semplici che purtroppo nel tempo per tanti motivi hanno perso ed è stata sostituita con delle armature più o meno spesse. Ecco, il teatro serve a tutto questo. E non solo ai ragazzi in cammino terapeutico, ma a chiunque: dai bambini agli anziani, dai diversamente abili ai reclusi. Provare per credere!”.