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L’escalation di violenza in Sudan. Intervista all’esperto di Africa Giorgio Musso

L’escalation di violenza che si protrae dal 15 aprile in Sudan, Paese africano che si trova sul lato orientale del continente, con gli scontri tra i soldati dell’esercito regolare e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), è una nuova tappa di una crisi iniziata quattro anni fa, con due colpi di Stato e le tensioni crescenti tra i due “uomini forti” del Paese guidato da una giunta militare, il presidente del Consiglio sovrano di transizione Abdel al-Burhan, generale dell’esercito regolare, e il suo vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo, a capo delle milizie dell’Rsf.

La situazione in deterioramento

I vari tentativi di tregua, tra cui una annunciata di tre giorni in occasione della festa di fine Ramadan, il mese del digiuno secondo la pratica islamica, costantemente violati dagli scontri che si susseguono nella capitale Khartoum ma non solo, gli assalti alle rappresentanze diplomatiche straniere, le vittime tra gli operatori della comunità internazionali, il resto del mondo all’opera per imbastire l’evacuazione dei propri concittadini dal Sudan. E’ questa, attualmente, la situazione nel Paese, che fa dire al ministro degli Esteri canadese Mélanie Joly “è instabile e si sta deteriorando rapidamente”. Il più recente e attendibile bilancio delle vittime, quello annunciato dall’Organizzazione mondiale della sanità venerdì scorso, indicava almeno 413 morti, tra cui nove bambini, e 3.551 feriti.

Gli attacchi

Nei giorni scorsi è stato aggredito nella sua abitazione nella capitale sudanese l’ambasciatore dell’Unione europea nel Paese, Aidan O’Hara, pur senza venir ferito gravemente, come ha fatto sapere il viceministro irlandese, e la residenza del rappresentante diplomatico di Parigi è stata assaltata da un gruppo poi respinto. Il 16 aprile invece sono morti a Kabkabiya, nel Darfur settentrionale, tre dipendenti del Programma alimentare mondiale. Successivamente sono stati uccisi anche un operatore umanitario dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e un cittadino americano. Intanto entrambe le parti, le forze regolari e i paramilitari, hanno dichiarato di esser disponibili a favorire le operazioni di evacuazioni di cittadini stranieri e rappresentanze diplomatiche di diversi Paesi, mentre i diplomatici sauditi hanno già lasciato il Sudan. La Difesa italiana ha un piano per l’evacuazione di circa duecento civili italiani, che avverrà, come anche per altri Paesi occidentali, attraverso il punto di raccolta a Gibuti, con l’ausilio di velivoli militari.

Le evacuazioni

Il ministro degli Esteri britannico James Cleverly ha annunciato in un tweet che il Regno Unito ha evacuato lo staff della sua ambasciata, come anche gli Stati Uniti, secondo quanto riportano i media americani citando alcune fonti. Mentre sono quasi cento, secondo una fonte diplomatica, le persone evacuate dalla Francia, e altre cento ne seguiranno. La Germania ha evacuato 101 persone dal Sudan, fanno sapere le forze armate tedesche. Il Belgio e i Paesi Bassi hanno annunciato l’avvio delle operazioni dei loro cittadini dal Sudan. “Sollevato dal fatto che il personale della rappresentanza Ue in Sudan sia stato evacuato in sicurezza dal Sudan. Grazie al ministero degli Esteri e della Difesa francesi per aver reso possibile tutto questo, con l’aiuto di Gibuti. L’ambasciatore dell’Ue continua il suo lavoro dal Sudan. Restiamo impegnati a far tacere le armi e ad aiutare tutti i civili che sono rimasti indietro”, così su Twitter l’Alto Rappresentante dell’Unione europea per la politica estera Josep Borrell. L’Egitto ha annunciato di aver evacuato “via terra” 436 cittadini egiziani dal Sudan “in coordinamento con le autorità sudanesi”. Il portavoce del ministero degli esteri del Cairo, l’ambasciatore Ahmed Abu Zaid, in un messaggio sulla pagina Facebook del dicastero ha precisato che “l’ambasciata egiziana a Khartoum, i consolati” nella stessa capitale sudanese e a “Port Sudan e l’ufficio consolare a Wadi Halfa continuano a coordinarsi con i cittadini egiziani in Sudan per garantire la loro evacuazione”. Sabato l’Arabia Saudita era già riuscita a rimpatriarne 91.

Italia

Anche l’Italia ha avviato la propria missione di salvataggio, con l’obiettivo di mettere in salvo nella notte i quasi 150 italiani intrappolati nella capitale sudanese. Uno dei due C-130 italiani dell’aeronautica militare, decollati alle 13.55 ora italiana da Gibuti alla volta di Khartoum, è ripartito dalla capitale sudanese Khartoum alla volta di Gibuti con la maggior parte degli italiani evacuati dal Sudan e alcuni cittadini stranieri, apprende l’Ansa da fonti informate. Rimane un piccolo gruppo ancora in aeroporto per un secondo aereo italiano o europeo. “Tutti i civili italiani presenti in Sudan, sono stati tratti in salvo e sono in volo verso Gibuti”, ha affermato il ministro della Difesa Guido Crosetto, “i primi 107 italiani a bordo di uno dei nostri C130 sono appena atterrati a Gibuti alle 22.00 ora italiana, 7 sono già arrivati poche ore prima e altri 40 stanno rientrando su un velivolo in collaborazione con le forze armate spagnole e domani un C130 riporterà a Gibuti il nostro ambasciatore in Sudan e il comandante dell’Extraction force che ha attuato l’operazione. In precedenza il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva annunciato che diciannove italiani che si trovavano in crociera nelle acque di Port Sudan, assistiti fin dall’inizio degli scontri, erano stati fatti sbarcare a Hurghada. Nella serata di ieri inoltre i paramilitari hanno annunciato la partenza di 41 italiani e di un certo numero di personale dell’ambasciata, ascrivendosene il merito.

In fuga

Sul versante profughi, lo scorso 20 aprile il team dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unchr) ha stimato che sono fuggite dal conflitto nella regione sudanese del Darfur, per cercare rifugio nel vicino Ciad, tra le 10mila e le 20mila persone, la maggior parte donne e bambini. “Con la crisi in Sudan aumenteranno le partenze dei profughi”. È questo l’allarme lanciato dalle organizzazioni non governative (ong) Mediterranea e Sos Mediterranée. “Quello che sta accadendo aggrava una situazione di grande sofferenza per la popolazione civile e chiaramente spingerà le persone a spostarsi dal Paese”, spiegano dalla ong Mediterranea. “A prescindere da dove vengono i profughi siamo pronti a salvarli”, dicono da Sos Mediterranée.

L’appello del Papa

“Rimane purtroppo grave la situazione in Sudan. Perciò rinnovo il mio appello affinché cessi al più presto la violenza e sia ripresa la strada del dialogo. Invito tutti a pregare per i nostri fratelli e sorelle sudanesi”, ha detto papa Francesco al Regina Coeli. E Borrel ha twittato:”Ho parlato con entrambi i generali Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo sollecitando un cessate il fuoco immediato. Ho inoltre insistito sulla necessità di proteggere i civili e di garantire l’evacuazione sicura dei cittadini dell’Ue”.

L’intervista

Interris.it ha intervistato il professore di Storia dell’Africa e ricercatore dell’Università di Roma Tre Giorgio Musso per approfondire quanto sta accadendo in Sudan.

Come si stanno evolvendo gli scontri armati tra l’esercito regolare e i paramilitari delle Forze di intervento rapido?

“La situazione mi appare abbastanza illeggibile e confusa, i mezzi d’informazione si sono concentrati su Khartoum ma gli scontri armati avvengono anche in molte altre città. In Sudan le guerre si sono sempre combattute nelle ‘periferie ‘ del Paese, per cui la capitale ha più che altro conosciuto l’afflusso dei profughi interni. La popolazione civile di Khartoum è sconvolta perché l’unica volta che era stata raggiunta da un combattimento militare è stato nel 2008, quando ci fu un brevissimo attacco portato dai ribelli del Darfur. I combattimenti sono estesi e questo renderà più difficile la composizione della crisi, soprattutto nella parte occidentale. Nel Darfur, infatti, regione segnata dalle violenze sin dagli anni Ottanta seguite dallo scoppio del conflitto ‘convenzionale’ con il governo centrale nel 2003, hanno base gli uomini delle Rsf di Dagalo. Anche se fossero sconfitte da Khartoum, quindi, le milizie potrebbero causare instabilità nell’ovest del Paese”.

Chi appoggia allora le rispettive parti in campo?

“Il capo delle Rsf ha legami molto stretti sia con gli Emirati che con l’Arabia Saudita, perché ha mandato i propri uomini a combattere in Yemen. Al tempo stesso i sauditi hanno mantenuto una posizione più equidistante, coltivando rapporti anche con al-Burhan e sostenendo il Paese  anche dal punto di vista economico, perché il Sudan versa in situazione drammatica. Al fianco del generale dell’esercito regolare c’è l’Egitto. Il presidente egiziano al-Sisi e al-Burhan hanno un forte legame: sono praticamente coetanei, hanno frequentato la stessa accademia militare e l’esercito egiziano vede in quello sudanese il proprio partner naturale. Non sono invece convinto quando si dice che il capo del Consiglio di transizione sostenga il ritorno di elementi islamisti del vecchio regime di al-Bashir – che al momento del crollo aveva ormai poco di islamista, dopo una parabola di transizione verso l’autoritarismo arabo di stampo militare. Dopo il colpo di stato del 25 ottobre 2021, al-Burhan ha favorito il ritorno di burocrati del regime nell’amministrazione dello Stato, ma questo non vuol dire che porti dentro islamisti, proprio per via del suo legame con l’Egitto, che non appoggerebbe chi porta con sé gli islamisti”.

Siamo sull’orlo di una guerra civile in Sudan?

“Di base i cittadini subiscono i conflitti, inoltre nella maggior parte dei casi le guerre civili vivono anche delle rivendicazioni di una certa parte della popolazione che si sente discriminata. Questa in corso è una ‘pura e semplice’ lotta per il potere tra due gruppi armati che non hanno nessun elemento politico di collegamento con la popolazione”.

Che cosa potrebbe significare la vittoria dell’una o dell’altra parte?

“Gli esiti sarebbero diversi in base all’affermazione di uno dei due. Al-Burhan rappresenta un’elite più istituzionale, composta da chi appartiene a una sorta di aristocrazia centrale sudanese che detiene il potere fin dall’indipendenza e potrebbe voler andare verso soluzione di ‘tipo egiziano’: un regime militare che mantenga buoni rapporti con l’Occidente offrendo la stabilità del Paese. Il generale Dagalo rappresenta invece, a modo suo, le periferie del Sudan, anche per questo è malvisto da Khartoum, e potrebbe costituire un regime più imprevedibile anche nella collocazione regionale e internazionale. Nessuno dei due garantirebbe comunque un governo civile che si occupi dello sviluppo del Paese”.

Chi potrebbe facilitare una mediazione?

“Sicuramente possono avere forte capacità di incidere i partner regionali come gli Emirati, i sauditi e l’Egitto, ma mi pare che tutti abbiano assunto un atteggiamento attendista. Tranne l’Egitto, più schierato, gli altri due infatti potrebbero costruire un rapporto con chi tra i due contendenti uscirà vincitore. E’ però difficile dire adesso chi potrà guadagnare credibilità per una mediazione, dato che le parti hanno dimostrato che questo è il momento degli scontri e non quello delle trattative. Non è nemmeno  detto che si giunga a una mediazione, se uno dei due prevale sull’altro. Qualora infatti vincesse l’esercito regolare potrebbe permanere una forte instabilità, dovuta alle forze paramilitari nelle altre aree del Paese”.

La situazione in Sudan rischia di aprire una crisi nella regione del Corno d’Africa?

“Al momento non vedo un pericolo che gli scontri armati si allarghino al di fuori del Paese, al massimo potrebbero verificarsi degli sconfinamenti nelle zone di frontiera dove Dagalo ha le sue roccaforti. Se invece i combattimenti si protraessero e ci fossero interventi di sostegno da parte di altre potenze regionali, anche con forniture di armamenti, potrebbe diventarlo”.

Lorenzo Cipolla

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