Che cosa c’entra lo psicologo con l’educazione? Sulla scia di papa Francesco

La psicologa Maria Luisa Tiberini ci spiega come il sostegno psicologico aiuti i ragazzi a gestire i traumi lasciati dalla pandemia. Attivando il “villaggio educante” richiamato da papa Francesco nel Patto educativo

Fin dall’inizio del suo pontificato, papa Francesco, nel promuovere un incontro per la scuola italiana (maggio 2014) aveva insistito sull’importanza del “villaggio educante”. Per educare un ragazzo ci vuole un intero villaggio, aveva affermato, citando un proverbio africano. Famiglie, educatori ma anche tutte quelle figure che ruotano attorno allo sviluppo della persona umana, non hanno smesso di lavorare e interrogarsi sul significato di questa frase. E sulle sue applicazioni concrete.

Inutile dire quanto poi la situazione di pandemia abbia impresso un segno profondo nella psicologia di tutti. Specialmente nei ragazzi, personalità di trasformazione, sulle quali l’impatto della difficile situazione ha avuto importanti risvolti.

Ne parliamo con Maria Luisa Tiberini, psicologa e psicoterapeuta e socia del Centro Co.Me.Te di Perugia.

“Il Patto educativo lanciato da Papa Francesco lo scorso Ottobre è più che mai urgente e necessario. Come soleva dire san Giovanni Bosco, ‘l’educazione è una questione di cuore’. Sulla scia di quanto in più occasioni è stato sottolineato da papa Francesco, ‘per educare una persona è necessario un villaggio’, è diventato irrimandabile l’agire.

La pandemia, infatti, ci ha allontanato e isolato fisicamente, ma la necessità di vicinanza di calore umano (comprensione ed empatia) necessitano di nuovi rapporti e luoghi. Nuovi contesti che colgano i bisogni dei giovani, con l’ascolto e con l’educazione alla solidarietà, alla cultura e alla curiosità”.

Ritorna il concetto del villaggio educante. Ma come è fatto, in concreto un villaggio educante?

“Il Papa incoraggia ‘processi creativi’ in cui l’ospitalità, la solidarietà intergenerazionale e il valore della trascendenza fondino una nuova cultura del villaggio.  In concreto, non si tratta di un unico luogo, di un gruppo, di una casa: sarebbe una limitazione. Non si può limitare l’educazione ai collegi, alle colonie, ai gruppi e comunità chiuse, dove i muri sono i giudizi e i pregiudizi contro gli altri per mantenere un’identità. Il villaggio educante, allora, è quel luogo dove, nella diversità, si condivide l’impegno di generare una rete di relazioni umane aperte, attente ai bisogni umani e spirituali di ciascuno ma anche orientate e orientanti rispetto al senso dello stare insieme, della vita e delle relazioni. Relazioni che costruiscono il futuro e la speranza. Il testo per il lancio del Patto educativo afferma che l’educazione deve sapersi fare portatrice di un’alleanza tra tutte le componenti della persona: tra lo studio e la vita; tra le generazioni; tra i docenti, gli studenti, le famiglie e la società civile con le sue espressioni intellettuali, scientifiche, artistiche, sportive, politiche, imprenditoriali e solidali. Un’alleanza tra gli abitanti della Terra e la ‘casa comune’, alla quale dobbiamo cura e rispetto. La costruzione di questo non luogo che è in realtà è un atteggiamento verso il mondo, è la condizione per educare.

In concreto, il terreno va anzitutto bonificato dalle discriminazioni con l’immissione di fraternità. Un’alleanza generatrice di pace, giustizia e accoglienza tra tutti i popoli della famiglia umana nonché di dialogo tra le religioni. Occorrono luoghi e persone che si dedichino a questo, non può essere un’unica agenzia ad occuparsene, ma un patto tra varie figure di adulti edificanti e coraggiosi”.

Che ruolo ha la scuola in questo processo?

“La scuola, assieme alle altre agenzie educative di orientamento tra scuola e lavoro, con la famiglia e le istituzioni deve mettersi in ascolto e favorire l’interazione e il dialogo tra genitori e figli. Gli attori del patto educativo sono gli adulti di riferimento che aiutano a muoversi nelle città e nel territorio rendendo fruibile e favorendo la relazione tra le persone, i giovani tutti, in particolare quelli più emarginati e in difficoltà rispetto le difficoltà personali, familiari e sociali”.

Dott.ssa Tiberini, a questo punto che cosa c’entra lo psicologo con il villaggio educante?

“In questo tempo di pandemia ci siamo interrogati sull’impatto di questa situazione sull’età evolutiva. Preadolescenza e adolescenza hanno bisogni specifici e rappresentano anche un tempo di allenamento. Gli adolescenti per uscire dagli effetti della pandemia hanno infatti bisogno di sicurezza e opportunità di vita. Tutto questo si riallaccia fortemente con il Patto educativo lanciato da papa Francesco.

Da sempre lo psicologo è una figura professionale che cura la parte umana interiore e le relazioni tra le persone, mediatore e favoritore di processi di resilienza e cura dei traumi e dei processi interni.

Il patto educativo può avere sia un ruolo specificatamente terapeutico di cura, sia di favoritore di relazioni e di resilienza, molto utile nelle agenzie e nei servizi pubblici per ascoltare, progettare e intervenire per il benessere della persona e delle sue relazioni. Perché queste siano significative e foriere di senso.

Negli ultimi mesi si è reso necessario oltre che garantire un servizio di ascolto, anche la gestione del trauma collettivo da Covid. La sintomatologia maggiormente riscontrata presenta disturbi alimentari e aumento della violenza intrafamiliare, assistita. Si è reso necessario affrontare queste problematiche oltre che in psicoterapia, anche con agenzie educative e gruppi adolescenziali specifici, condotti con metodologia sistemico relazionale e gestione del trauma E.M.D.R”.

Come avete operato per sostenere in ragazzi, in particolare?

“Il modello Life Skills Based education dell’Organizzazione Mondiale della salute ci fornisce una chiave di accesso alla comprensione di questi bisogni e ci permette di capire quali, tra essi, sono stati particolarmente negati o deprivati nel corso del lockdown.

Questo è quanto i ragazzi hanno manifestato:

  • eccessivo attaccamento
  • paura che i membri della famiglia possano contrarre l’infezione
  • paura che la chiusura non finisse mai
  • disattenzione
  • continue domande
  • irritabilità.

Abbiamo allora approntato un apposito gruppo adolescenti, per affrontare insieme l’ansia e le paure che sono conseguite alla chiusura, per riconoscere e riattivare competenze e risorse che si erano spente o non si pensa più di avere. Tutto affrontando anche il trauma che ne consegue, perché possa diventare opportunità”.

Il percorso è iniziato, ma è il caso di dire che ha bisogno dell’apporto di tutto il villaggio educante per andare avanti e concludersi nel migliore dei modi.