Carosi: “L’approccio ‘One Health’, una strategia per contrastare le zoonosi”

L’intervista di Interris.it a Giampero Carosi, professore emerito di malattie infettive dell’Università degli Studi di Brescia

Da due lunghi anni la pandemia di Coronavirus tiene il mondo, ancora, in uno stato di incertezza per il futuro. Con il suo pesante tributo di vite umane e la paura di ammalarsi, l’esperienza ha messo tutti a dura prova e occupato a lungo le prime pagine dei giornali e dei notiziari.

Mentre l’attenzione mondiale e gli sforzi della comunità internazionale erano rivolti al Covid, altre malattie non hanno però smesso di circolare, soprattutto in quelle parti del mondo più povere, politicamente instabili e con un sistema sanitario particolarmente debole. E’ il caso di ebola, una febbre emorragica di cui recentemente è stato individuato un nuovo focolaio nella Repubblica Democratica del Congo. Nelle ultime settimane invece si stanno registrando casi di un’altra malattia, il vaiolo delle scimmie, nota come monkeypox.

La situazione

Sono una decina i casi monkeypox  nel nostro Paese, 106 in Inghilterra, come ha confermato l’Agenzia per la sicurezza sanitaria britannica, 98 in Spagna. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha avvertito oggi che i 200 casi di vaiolo delle scimmie rilevati nelle ultime settimane a livello globale, in Paesi in cui il virus non circola abitualmente, potrebbero essere “solo la punta dell’iceberg. “Non sappiamo se stiamo solo vedendo la punta dell’iceberg”, ha affermato Sylvie Briand, direttrice del dipartimento globale di preparazione al rischio infettivo dell’Oms, durante una presentazione agli Stati membri dell’organizzazione sulla diffusione del virus. “Abbiamo una finestra di opportunità per fermare la trasmissione ora – ha proseguito – . Se mettiamo in atto le misure giuste ora, probabilmente possiamo contenerlo rapidamente”.

L’intervista

Per capire meglio cosa siano le zoonosi e qual è la situazione attuale legata al vaiolo delle scimmie, Interris.it ha intervistato il  professore emerito di malattie infettive dell’Università degli Studi di Brescia Giampiero Carosi.

Sempre più spesso vengono alla ribalta della cronaca nuovi virus e nuove malattie definite zoonosi. Professore, ci spiega cos’è una zoonosi?

“In realtà da sempre ci confrontiamo con zoonosi, che si definiscono come malattie infettive trasmesse, direttamente o indirettamente, dagli animali all’uomo attraverso ‘salti di specie’ di microbi patogeni. Nel 2012 il noto divulgatore scientifico David Quamman ha coniato il termine spillover per designare il concetto di ‘salto di specie’. Si valuta che fra un terzo e la metà di tutte le malattie infettive dell’uomo abbia origine zoonotica. Rientrano fra queste infezioni causate da batteri, come la brucellosi e il carbonchio, da parassiti, come la toxoplasmosi e la leishmaniosi, ma negli ultimi decenni sempre più frequentemente sono venute alla ribalta infezioni da virus. Fra queste rientrano i notissimi esempi dell’AIDS, dell’influenza aviaria e della Covid-19, zoonosi di dimensioni pandemiche. Altre zoonosi causate da virus hanno dimensioni epidemiche più limitate: ne sono esempio le malattie da virus Ebola, Zika, Marburg, Lassa, West-Nile, la febbre emorragica di Congo-Cimea,  e la febbre della Rift Valley, tra le altre”.

Perché adesso le zoonosi emergono con frequenza?

“Le cause sono molteplici. I cambiamenti climatici influenzano soprattutto le infezioni trasmesse tramite da vettori, come zanzare e zecche, sollecitati a cambiare il loro habitat. I cambiamenti ambientali, per esempio le deforestazioni, portano l’uomo a contatto con covi di pipistrelli, formidabili serbatoi di virus. Altra condizione epidemica che favorisce la trasmissione risiede nel sovraffollamento e nell’invecchiamento delle popolazioni umane, che determinano più stretti rapporti interumani e condizioni di immuno-compromissione. Ma una motivazione più generale è legata alla globalizzazione dei viaggi e dei commerci intercontinentali. Questo fa sì che focolai infettivi che un tempo erano limitati a remote aree del mondo e pertanto destinati a rimanere sconosciuti, oggi sono portati sotto i riflettori dell’Occidente industrializzato”.

L’approccio “One Health” sarebbe quindi la strategia corretta per contrastare le zoonosi, la trasmissione di malattie dagli animali all’uomo?

“Sì. ‘One Health’ è una visione olistica, ossia un modello sanitario basato sull’integrazione di discipline diverse, sul riconoscimento delle interrelazioni indissolubili che legano la salute umana, la salute animale e la salute dell’ecosistema. Di qui nasce il concetto di ‘salute globale’, che definitivamente supera il concetto di salute come ‘assenza di malattia’ e integra il concetto di ‘stato di completo benessere’ considerando l’ampio spettro di determinanti che in questo ambito convergono.

A livello internazionale, nelle ultime settimane, si stanno registrando casi di una malattia nota come “vaiolo delle scimmie”, monkeypox. Di che si tratta e come si manifesta?

“Si tratta di una malattia causata da un virus, monkeypox virus, della stessa famiglia del virus del vaiolo umano, smallpox virus, ma decisamente meno diffuso e grave. Nell’uomo la malattia si manifesta inizialmente come una ‘sindrome simil-influenzale’, con febbre, cefalea, dolori muscolari, interessamento dei linfonodi e manifestazioni cutanee del tipo vescicole, pustole e croste. La malattia ha un periodo di incubazione da una fino a tre settimane, rimane contagiosa fino alla scomparsa delle lesioni cutanee e di norma si risolve spontaneamente, in media fra due e quattro settimane. Di recente peraltro è stato approvato negli Stati Uniti e in Europa un nuovo farmaco, in formulazione orale ed endovenosa, il tecovirimat, per il trattamento del vaiolo umano e anche del vaiolo delle scimmie”.

Qual è la ‘storia’ del vaiolo delle scimmie e come valuta la situazione attuale?

“Il monkeypox (MPX), è stato identificato nel 1958 in un gruppo di scimmie e nel 1970 in un bimbo di 9 anni in Congo, ma è balzato alla ribalta per una epidemia occorsa negli USA nel 2003 e collegata al commercio illegale di roditori provenienti dal Ghana. Questi infatti rappresentano i veri serbatoi naturali del virus. Il contagio può avvenire per contatto con lesioni della pelle o tramite goccioline, droplets, emesse con il respiro, tosse e starnuti o anche tramite lenzuola e asciugamani. La contagiosità interumana è peraltro ritenuta bassa con Ro pari a 1, almeno 10 volte inferiore rispetto al coronavirus della Covid-19, ma in questo mese di maggio i tentativi di spillover di monkeypox virus hanno avuto particolare successo, facendo registrare casi segnalati contemporaneamente in diversi Paesi europei”.

In Francia l’autorità sanitaria nazionale ha annunciato una strategia di vaccinazione. Ci sono quindi  dei vaccini a disposizione: è possibile una campagna di prevenzione, quantomeno diretta ad alcune popolazioni a rischio?

“Esistono tre vaccini, di cui uno autorizzato specificamente anche per MPX oltre che per vaiolo umano. Comporta due  somministrazioni a quattro settimane di distanza mentre gli altri due sono monodose. Per quanto concerne ‘chi vaccinare’ non abbiano una risposta precisa poiché tuttora non sappiamo con certezza se la maggiore diffusibilità riscontrata è legata al virus (improbabile) o a cambiamenti del comportamento umano. In Italia vengono allertati i centri per le Infezioni sessualmente trasmissibili (IST) e dei Viaggi Internazionali. In tutti i casi l’indicazione è per una vaccinazione non generale di popolazione ma riservata ai contatti di casi accertati o sospetti, la cosiddetta ring vaccination). E’ utile sapere che, dato il lungo periodo di incubazione, i contatti possono essere utilmente vaccinati anche in fase di post-esposizione”.

Ad aprile nella Repubblica Democratica del Congo è scoppiato un nuovo focolaio di malattia da virus Ebola. Quanto siamo lontani dal debellare questa grave malattia e a cosa è dovuto questo ritardo?

“ Il 23 aprile 2022 il Ministro della Sanità della RDC ha dichiarato la presenza di un’epidemia di malattia da virus di Ebola a seguito della conferma di laboratorio, tramite PCR, di un caso occorso nella provincia di Equateur. Si trattava di un uomo di 31 anni che aveva manifestato i primi sintomi il 3 aprile, evoluta con manifestazioni emorragiche e deceduto il 21 aprile. Un secondo caso si è manifestato il 13 aprile in una donna di 25 anni, deceduta il 25 aprile dopo aver stabilito ripetuti contatti in chiesa, in farmacia e in centri di salute. Si tratta del tredicesimo evento epidemico occorso nella RDC dal 1976 (data della scoperta del virus) e il terzo nella provincia di Equateur dal 2018, di cui l’ultimo nel novembre 2020, con 130 casi confermati o probabili. L’emergenza di questo nuovo focolaio epidemico non era inatteso data la presenza endemica del virus nel serbatoio animale, pipistrelli e primati non umani e la confluenza di fattori ambientali e socio-economici quali l’estrema povertà, l’instabilità politica e la debolezza del sistema sanitario. Si pensi ad esempio che i sistemi di prevenzione e cura messi in atto nella precedente epidemia del 2020 sono stati lasciati decadere, anche per la necessità di dovere fare fronte contemporaneamente ad altre epidemie: colera, morbillo, monkeypox e COVID-19. La stessa situazione del Congo è presente in altre zone epidemiche dell’Africa Occidentale, Guinea, Sierra Leone e Liberia dove focolai epidemici si sono accesi negli scorsi anni. Riguardo la questione di debellare ebola, ma in generale le febbri emorragiche virali, tutte zoonosi endemiche accomunate dalla estrema gravità, sono in effetti disponibili metodi diagnostici raffinati ed è autorizzato l’uso in emergenza di cocktail di anticorpi monoclonali diretti verso il virus, l’uso di un vaccino ricombinante derivato dal virus della stomatite vescicolare e di farmaci nucleosidici terminatori di catena quali il favipiravir e il remdesevir. Il problema è che non avremo mai la produzione locale a basso costo di medicinali ‘generici’ o ‘bioequivalenti’, il che presupporrebbe l’esecuzione di trials registrativi e di investimenti miliardari, che non verranno mai ripagati da governi africani e neppure dalle Agenzie internazionali. E anche qualora farmaci e vaccini fossero disponibili le infrastrutture e la logistica fatiscenti ne precluderebbero l’impiego. Queste malattie restano confinate in realtà aliene e di fatto interessano solo se e quando emergessero alla ribalta dei paesi ricchi. Fino ad allora un velo pesante di povertà e di oblio è destinato a coprirli a partire dal giorno dopo l’annuncio di un nuovo focolaio epidemico”.