Se il computer non salva la giustizia

paolo_auriemma_296Tutti sappiamo che, purtroppo, il principale dei problemi della giustizia civile italiana consiste nella lentezza delle decisioni, che senz’altro è figlia di tanti fattori. Riforme continue sulle regole processuali, eccesso di norme di natura sostanziale, insufficienza delle risorse, umane e materiali e certamente mancanza di sistemi deflattivi ed una conflittualità tipica del carattere degli italiani che ricorrono al giudice anche per fatti che potrebbero essere risolti soltanto con un po’ di buon senso e buona volontà. E questo porta, lo si è detto continuamente, ad un processo, soprattutto civile, inefficiente, che spinge le imprese, soprattutto straniere, a non investire nel nostro Paese, o ad allontanarsi dalla giustizia dello Stato affidandosi –per chi ne ha la forza economica- agli arbitrati. Ma ancor di più, direi, a non dare piena tutela a chi vede lesi i propri diritti. Da qui un tentativo, che viene da lontano, di accelerare i tempi processuali, pur senza sacrificare le garanzie poste a tutela del singolo. In questo contesto è stata pubblicizzata una importante riforma dell’organizzazione giudiziaria, soprattutto nel settore civile, costituita dall’introduzione del PCT, cioè del processo civile telematico. Si è detto che l’introduzione dei mezzi telematici renderebbe più agile la procedura e più rapide le decisioni. In realtà le finalità dell’instaurazione del processo telematico sono ben diverse.

Certamente il processo telematico rende più veloci ed economiche le comunicazioni che le cancellerie fanno agli avvocati, ed evita agli legali di doversi recare in cancelleria a depositare atti e documenti processuali. Questo consente ai difensori di guadagnare tempo prezioso, e allo Stato di risparmiare molto denaro che fino a poco tempo fa veniva speso per le comunicazioni di cancelleria. Ma, di per sé, non aiuta i giudici a decidere più velocemente le cause e non rende più veloci i procedimenti dove la decisione sia minimamente complessa. E allora, il risparmio di spesa che si consegue, pur significativo, non è tale da giustificare i disagi che derivano a tutti i protagonisti della giustizia dalla necessità di imparare nuove modalità di svolgimento del loro lavoro (senza, peraltro, che si sia investito sufficientemente in formazione). Ben diversa sarebbe la situazione, se con un minimo di lungimiranza, i risparmi derivanti dal PCT fossero reinvestiti in formazione del personale attivo, in assunzione di nuovo personale – non dimentichiamo che da decenni ormai non si assume più personale per i Tribunali, e che in meno di un decennio non residuerà più un singolo operatore ove non vengano riaperti i concorsi-.

Ciò che i magistrati temono, anche se hanno accettato la sfida del “futuro”, è che, pur con ogni buona volontà, l’assoluta carenza di personale e di assistenza tecnica renda del tutto inutile lo sforzo quotidiano di produrre un numero di decisioni sempre più elevato. E infatti non viene detto che l’uso delle tecnologie del PCT, quasi mai accelera e in moltissimi casi rende più farraginosa e talvolta addirittura impedisce in assoluto la redazione dei provvedimenti e il loro deposito. Basti un esempio per tutti. Il giudice dovrà esaminare atti, lunghi anche centinaia di pagine, che prima aveva a disposizione su carta, soltanto attraverso la lettura a monitor. Quanto questo renda più complesso l’esame di due o più testimonianze sulle stesse circostanze o, ancor peggio, lo studio di planimetrie, che su carta occuperebbero diversi metri quadri (ipotesi tutt’altro che eccezionale in cause come tra le più semplici e frequenti, come quelle in tema di regolamento di confini) è comprensibile a chiunque voglia capire quali sono i fondati timori, non solo dei magistrati ma di tutti gli operatori della giustizia. Quindi certamente dovremo progredire utilizzando al massimo anche le risorse tecnologiche, ma queste devono servire a lavorare meglio ed in esse non va riposta una speranza fideistica e quasi superstiziosa per la risoluzione dei problemi della durata dei processi, che possono essere affrontati attraverso la strutturazione di un serio sistema di deflazione processuale, ponendo regole procedurali chiare e su tutto strutture realmente affidabili ed efficienti.

Paolo Auriemma

Pubblico Ministero presso la Procura della Repubblica di Roma

Già componente del Consiglio Superiore della Magistratura