MADE IN CARCERE

Ha lasciato il mondo della finanza, il suo posto da dirigente di banca, le sicurezza che 22 anni di servizio le davano e il prestigio di aver contribuito a creare il primo modello di banca virtuale. E ha deciso di regalare il suo tempo alle detenute.

E’ la storia di Luciana, che a un certo punto della sua vita ha pensato di tornare a casa, a Lecce, di dedicare più tempo a se stessa e alla sua famiglia; ma anche che fosse arrivato il momento di restituire agli altri quanto di buono aveva ricevuto dalla vita. E si è inventata qualcosa di grandioso: usare il materiale buttato via da alcune aziende per dare lavoro – regolarmente contrattualizzato – alle donne in carcere. Cioè utilizzare gli scarti delle lavorazioni per farli trasformare da quelli che impropriamente vengono definiti gli scarti della società. Un piccolo miracolo, che produce anche economia. Uno schiaffo alla superficialità con cui si emettono giudizi sulle persone relegandole ai margini della società.

carcere“Dall’innovazione tecnologica – racconta – ho pensato di arrivare all’innovazione sociale. Mi sono sempre preoccupata di pensare all’”altro”. Un approccio materno se vogliamo, di mamma mancata, ma ho sempre cercato di prendermi cura degli altri. In un primo momento avevo brevettato un collo di camicia, iniziato la formazione in carcere per creare delle risorse umane capaci di portare avanti il progetto… Ma sono uscite tutte con l’indulto, e mi sono ritrovata con un pugno di mosche in mano. Troppo complicata la sartoria per quel tipo di cucito. Dunque ho ricominciato con oggetti più semplici, borse fatte con materiale di recupero, rettangoli. E anche cambiando il personale il lavoro può andare avanti”.

Le ragazze che lavorano con Luciana Delle Donne nel progetto Made in carcere hanno un regolare contratto, che però ha come sede di lavoro il carcere stesso. Quando finiscono di scontare la loro pena ed escono, devono lasciare quel lavoro e andare incontro alla libertà, avendo però un bagaglio professionale acquisito.

Ma come fare per trovare il materiale necessario a produrre borse e gadget? “Cerchiamo all’interno delle aziende tessili, chiediamo se hanno rimanenze, scarti, campionario. Confidiamo nelle donazioni, raramente compriamo; e poi stock di magazzini che hanno bisogno di essere svuotati. Per fortuna esiste una buona disponibilità, anche perché sapendo l’utilizzo che se ne fa troviamo quasi sempre disponibilità. L’idea che certi tessuti non finiscano al macero ma vengano rigenerati, continuino a vivere, abbiano una seconda chance è molto profonda, specialmente se la si mette in correlazione con chi effettua questa trasformazione. Peraltro – aggiunge con un sorriso – alla fine vengono tessuti vintage molto belli”.

Attualmente sono operative convenzioni con i carceri di Lecce e Trani. Al loro interno sono stati attrezzati laboratori di sartoria con macchine da cucire, alcune comprate alcune noi altre dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Ma esistono collaborazioni anche con le carceri di Genova, Vigevano, Santa Maria Capua Vetere.

“Le detenute – spiega ancora Luciana – accettato la sfida, questa opportunità economica e professionale. Nessuna difficoltà particolare. Stipendio base e premi per chi mette passione, o ruoli di seniority; la meritocrazia qui funziona, un altro piccolo miracolo”.

L’offerta di lavoro prescinde dalla tipologia di reato per cui si sta dietro le sbarre: “Noi il reato non lo conosciamo, la lavoratrice viene selezionata anche dalla direzione. Non ci interessa fare i giudici, noi vogliamo tendere una mano”.

Un intento lodevole, ma con qualche rischio: le detenute infatti lavorano con forbici lunghe 20 centimetri… “C’è sempre un controllo da parte della polizia penitenziaria. C’è chi dice che non è mai successo nulla perché non avrebbe senso sprecare un’opportunità del genere… Beh, chi parla così non conosce la realtà della galera; il ‘senso’ in carcere è una parola grossa, e per ferire le persone o per andare in ospedale si potrebbe fare di tutto. Per nostra fortuna non è mai accaduto”.

E allora eccolo il campionario in vendita: accessori, borse, prodotti anche personalizzati. Vengono venduti in alcune librerie fastbook e in altre indipendenti a livello nazionale, poi nei punti Italy, nei Conad (“Per loro abbiamo prodotto 400.000 braccialetti”, racconta).

Ma non sono tutte rose e fiori. “Non è facile competere sul mercato, in particolare con l’invasione dei cinesi. Ci tocca evitare la doppia cucitura, ad esempio, per non perdere tempo e far alzare i costi. E poi comunque dobbiamo fare i conti con la disponibilità del personale di guardia necessario al controllo; quando non c’è, si ferma anche la produzione”.

La prima fattura è arrivata nel 2008, con la Regione Puglia. A seconda delle commesse ricevute, le impiegate oscillano dalle 15 alle 50. Un grande impegno, molto difficile da portare avanti: “Fare impresa sociale – conclude amaramente Luciana – è quasi un ossimoro. O fai l’uno o fai l’altro”. Per fortuna c’è chi non molla.