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LA MORTE NERA

I neri rappresentano il 13 per cento della popolazione americana, e il 14 per cento dei consumatori di droghe, ma sono il 37 per cento delle persone arrestate per reati legati al consumo e alla vendita di droga. Una Commissione del Congresso americano, nel 2010, ha stabilito che, in media, i neri americani sono condannati a pene più lunghe del 10 per cento rispetto ai bianchi. I maschi afroamericani nati nel 2001 (dati del Dipartimento alla Giustizia) hanno il 32 per cento di possibilità di finire in galera durante la loro vita (contro il 6 per cento dei bianchi). Un dato su tutti: l’80 per cento dei fermati per controlli a New York City sono neri o ispanici. E dall’inizio del 2016 sono già 215 gli afroamericani uccisi dalla polizia.

Dobbiamo partire da questi numeri per capire le esplosioni di violenza, le aggressioni alla polizia, le sommosse in molte città d’America. Un dato numerico che non può da solo essere la spiegazione conclamata di un razzismo diffuso, ma al contempo non può essere ignorato e rappresenta un campanello d’allarme che ormai suona sempre più forte.

Le sommosse a Charlotte, dovute alle uccisioni da parte delle forze dell’ordine, di due afroamericani, uno proprio nella città del North Carolina e uno a Tulsa, in Oklahoma, sono solo l’ultimo anello di una catena di rabbia pronta ad esplodere. Proprio a ridosso delle Presidenziali Usa, proprio in un momento storico in cui il presidente è nero.

Perché? Lo spiega Mapping Police Violence, un collettivo di ricercatori americani che raccoglie ed elabora i dati sui casi di afroamericani uccisi dalla polizia negli Stati Uniti.
Nel 2015 il 30 per cento degli afroamericani uccisi dalla polizia era disarmato; tra i bianchi, lo era il 19 per cento. Nel 2016, meno di un terzo degli afroamericani uccisi dalla polizia era sospettato di un crimine violento ed era ritenuto armato (il 31 per cento). Sempre nel 2015, nel 97% dei casi nessun agente è stato incriminato. Uno schiaffo – secondo la comunità nera e ispanica – al concetto di giustizia.

In alcuni dei maggiori dipartimenti di polizia delle città americane, nel 2015 tutte le persone uccise dai poliziotti erano afroamericane: tra esse, a St. Louis e Kansas City in Missouri, ad Atlanta in Georgia, a Cleveland in Ohio, a Baltimora in Maryland, a Virginia Beach in Virginia, a Boston in Massachusetts, a Washington.

Mentre alcuni hanno puntato il dito contro la criminalità violenta come responsabile della violenza della polizia in alcune comunità, i dati mostrano che gli alti livelli di criminalità violenta nelle città non sembrano rendere più o meno probabile che i dipartimenti di polizia uccidano persone”, afferma un rapporto dell’ong. “Negli ultimi anni, i dipartimenti di polizia di città ad alto tasso di criminalità di città come Detroit e Newark hanno ucciso un numero significativamente più basso in proporzione alla popolazione rispetto ad altre città con tassi molto più bassi, come Austin (Texas), Bakersfield (California), Long Beach (Long Beach)”, prosegue. “Più che essere determinata dal tasso di criminalità, la violenza della polizia riflette una tendenza all’impunità nella cultura, nelle politiche e nelle pratiche delle istituzioni che regolano le politiche”, afferma l’ong.

Negli occhi di tutti il caso che ha portato alla ribalta la disparità di trattamento nei confronti degli afroamericani, quello del 17enne nero ucciso in Florida il 26 febbraio del 2012. Il ragazzo camminava con il cappuccio della felpa in testa, atteggiamento che ha insospettito George Zimmerman, vigilante volontario della zona. Tra i due è scoppiata una lite e ad un certo punto Zimmerman ha sparato a bruciapelo. L’uccisione del teenager ha scatenato manifestazioni in tutto il Paese con migliaia di proteste, riprese anche l’anno successivo dopo l’assoluzione del vigilante. Sono passati oltre 4 anni, ma nulla è cambiato.

Fabrizio Gentile

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