BENVENUTI ALL’INFERNO

“Sono arrivato in Libia dove sono stato fermato e rinchiuso, mi hanno detto ‘Benvenuto all’inferno!’, ci picchiavano ogni giorno, per un mese. Mia madre dalla Somalia ha dovuto pagare un riscatto, poi sono stato venduto ai trafficanti che gestiscono gli imbarchi, e ho pagato di nuovo per salire sui barconi.” E’ il terribile racconto di un ragazzo di 16 anni dopo un lungo viaggio con i narcotrafficanti attraverso Etiopia e Sudan. Simbolo di una tragedia, quella dei flussi migratori irregolari, cui assistiamo attoniti ogni giorno.

A Roma per rispondere all’emergenza c’è chi si è lasciato scomodare dal grido dei più bisognosi, come per esempio è accaduto ad Emanuele Selleri, missionario e volontario con la Comunità Scalabriniana, da anni impegnato nel servizio per gli immigrati nella Capitale e poi in Sud America, ha accolto con gioia l’invito che fece Papa Francesco all’Angelus del settembre 2013 quando dalla finestra di San Pietro esortava il suo popolo: “Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non sono vostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità”.

Emanuele ha 32 anni e ha compreso bene come diceva don Benzi che “la vita si rafforza donandola”, uno schiaffo alla mentalità individualista del terzo millennio. Un testimone di carità che insieme ad altri volontari avvierà la ristrutturazione dell’ex seminario della congregazione per trasformarlo in un centro di accoglienza per rifugiati. “Entro la fine di Marzo – racconta a Interris – si deciderà verso quale necessità orientare il centro che nascerà nella periferia romana. Si pensa alle famiglie o ai minori accompagnati, di certo quello che sicuramente faremo è un servizio integrale, la differenza in questi casi è la qualità. Tra le priorità consideriamo anche quella di creare una base di relazioni con la comunità interessata, con la chiesa e con il quartiere. Il fenomeno dell’immigrazione è eterno e non si fermerà per questo c’è bisogno di mettersi in gioco. Secondo me la terra non è nostra, ci è stata data in dono per farne uso comune, aggiungere un posto a tavola non dovrebbe essere nemmeno un problema. La difficoltà è dare un’alternativa, dare un’opportunità di integrazione. Non stiamo facendo nulla di nuovo, vogliamo essere solo un segno di un buon servizio”.

Persone come Emanuele conoscono la sofferenza dei tanti disperati che affrontano i pericoli del mare per cercare nuovi orizzonti. Sono bambini, donne, uomini, giovani e anziani che per evitare le stragi che incombono sui loro Paesi di origine, come la Siria, la Libia o la Nigeria intraprendono i cosidetti “viaggi della speranza”. E’ un modo di dire entrato ormai nel linguaggio comune ma racchiude in sé un significato profondo: queste persone, spesso definite disperate sono invece il segno di chi la speranza non l’ha persa, di chi è disposto a rischiare tutto pur di non vedere allontanarsi l’orizzonte della vita.

Il tema dell’immigrazione, da sempre esistito nella storia dell’umanità non smette di bussare alle porte della società moderna, anzi oggi sembra che il fenomeno, sempre più in aumento e con numeri impressionanti per quanto riguarda coloro che perdono la vita durante la traversata, sia un motivo di profonda riflessione per Paesi come l’Italia e la Grecia che fanno fronte alle prime urgenze e all’arrivo dei barconi.

I dati diffusi dall’Unhcr, la principale organizzazione al mondo impegnata in prima linea a salvare vite umane, a proteggere i diritti di milioni di rifugiati e di sfollati, rendono la misura di quanto accade a poche centinaia di chilometri dalle nostre case. Oltre 20.000 i morti in mare negli ultimi 25 anni, 3500 tra deceduti e dispersi solo nell’ultimo anno. Dall’inizio 2015 sono state circa 470 le persone che hanno perso la vita o sono scomparse nel Mar Mediterraneo, una cifra ben più alta se paragonata allo stesso periodo del 2014 in cui si registrarono 15 vittime. Per questo motivo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha lanciato un appello all’Unione Europea affinché non chiuda gli occhi di fronte a quella che viene definita “una sfida”, ma che prima di tutto è un’emergenza.

Tra le migliaia di persone che raggiungono le nostre coste sono tantissimi i bambini e gli adolescenti non accompagnati, rimasti in molti casi orfani, peggio ancora venduti o separati dai loro familiari durante lo smistamento della folla per riempire i barconi diretti verso l’Europa. Hanno in media tra i 9 e i 17 anni e rappresentano il volto più vulnerabile degli oltre 8 mila migranti che solo tra gennaio e febbraio 2015 hanno dovuto attraversare il Mediterraneo.

Un dramma continuo che sembra risvegliare le coscienze solo quando le acque europee si riempono di corpi senza vita. Troppo spesso i media tacciono su questo problema che, invece, dovrebbe essere raccontato quotidianamente, non solo se, tra le onde del mare, si allunga l’ombra della morte.