Investire in fabbriche e innovazione: la ricetta contro la crisi del lavoro

La violenta pandemia del Covid-19 ha portato con sé morte e dolore. Non va mai dimenticato. Il sacrificio di vite umane è stato terribile anche se c’è ancora, a poche settimane da quelle immagini dolorose che proiettavano da Bergamo la drammatica carovana di camion militari che trasportavano le salme dei troppi morti, chi prova ad abusare dell’ignoranza e della credulità delle persone per dire che era tutto falso. Se non teniamo bene a mente tutte quelle morti e vite spezzare rischiamo, oggi, in qualsiasi cosa facciamo, di sciupare questa tragedia nell’ennesima commedia Gattopardesca tutta italiana. Certo, non avremmo mai voluto fare i conti con un dramma di queste dimensioni, ma occorre prendere contezza di quanto questa epidemia sia diventata un acceleratore di quelle trasformazioni con le quali avremmo dovuto fare, prima o poi, i conti.

Tecnologia, demografia e clima stavano da tempo bussando alle porte del cambiamento, chiedendoci di chiudere definitivamente con il Novecento e aprire una nuova fase. In pochi giorni, il virus ci ha costretti a cambiare le abitudini di vita e la routine rassicurante, rimettendo in discussione le nostre certezze, come mai era capitato dal Dopoguerra. E se oggi siamo usciti, almeno in parte, dalla fase dell’emergenza sanitaria, si apre un’altra emergenza: quella economica e del lavoro. Una crisi di una portata tale che trova un recente precedente nella crisi economico/finanziaria del 2008, solo che la violenza di questa si è concentrata tutta in due mesi. E non pochi, a ragione, azzardano un paragone con l’Italia post bellica in cui il paese era completamente da ricostruire. I dati diffusi questa settimana dall’Istat sono estremamente preoccupanti con una marcata contrazione del Pil nel 2020 del -8,3%, a cui si affianca un calo pesante delle ore lavorate per il 2020 del -9.3% che tradotto significa migliaia di posti di lavoro in meno.

Uno scenario che trova il suo epicentro nel settore metalmeccanico. Dall’automotive, all’elettrodomestico passando per la siderurgia, la pandemia non ha fatto altro che inasprire la crisi di settori che stavano facendo i conti con la transizione tecnologica e con i necessari cambiamenti delle normative ambientali. Ex-Ilva, Gruppo Fca e Whirlpool sono solo alcune delle 160 crisi aperte al Ministero dello Sviluppo Economico che con la chiusura della fase di lockdown sono tornate a farsi sentire. La vicenda di Arcelor-Mittal ex-Ilva è emblematica di quanto questo paese sia incapace di fare sinergie e di costruire proposte di lunga prospettiva; come sindacato, con l’intesa del settembre 2018, avevamo trovato una soluzione in grado di coniugare lavoro, risanamento, salvaguardia ambientale e sanitaria e investimenti, tutto naufragato sotto i colpi del populismo e dei pasticci della politica.

Ma è tutta la siderurgia italiana ad essere in difficoltà, dall’Ast di Terni, alla JSW di Piombino, un settore primario strategico per il Paese che mette a rischio la sovranità industriale dell’Italia che già oggi per soddisfare il proprio fabbisogno è costretto ad importare gran parte dell’acciaio dalla Germania e dalla Turchia. Per non parlare dell’automotive, un settore fondamentale per il nostro sistema industriale sia in termini occupazionali che per le ricadute tecnologiche, ma che il governo italiano continua a guardare con grande disattenzione per non dire di ostracismo. L’automotive si trova ad affrontare una transizione epocale che avrà implicazioni non solo sull’”oggetto auto” ma anche e soprattutto sulle nostre città e sull’ecosistema territoriale che verrà costruito intorno all’auto e che influenzerà molti altri settori. Per l’Italia sarebbe dunque fondamentale stare dentro questa partita, anche a fronte della fusione tra FCA e Gruppo PSA, ma il Governo sembra non aver colto la portata della posta in gioco preferendo finanziare monopattini elettrici e e-bike, salvo poi strumentalizzare la richiesta di prestito avanzata da FCA secondo quanto previsto dal” decreto rilancio”. Il problema di tutte queste vertenze, comprese le tante che non sono approdate al Ministero, è riconducibile a una serie di problemi e nodi che ingessano il paese e che conosciamo benissimo da anni: burocrazia, carenza di infrastrutture materiali e immateriali, sistema bancario poco vicino alle imprese, lentezza giudiziaria, formazione, corruzione.

A tutto ciò va aggiunto un ingiustificato quanto atavico sentimento anti-industriale della politica Italiana che pensa, oggi, di risolvere le carenze del sistema paese tornando ad una statalizzazione ante-litteram. L’appuntamento con il futuro non è più rinviabile, non ci saranno più sconti, bisogna uscire dal ‘900 e cominciare a pensare, immaginare e costruire un paese nuovo, più giusto, sostenibile e connesso, capace di stare dentro il XXI secolo e cogliere tutte le sfide che abbiamo davanti sul piano tecnologico, ambientale e demografico. Dovremmo imparare a guardare con maggiore fiducia al futuro investendo in formazione e tecnologia, creando ecosistemi favorevoli alla creazione di imprese e lavoro nel paese. Per invertire la rotta serve un cambio di mentalità, una strategia condivisa e inclusiva per un futuro migliore per tutti, tanto sul piano lavorativo che sociale.