Giovanni Paolo II, il Papa che mostrò il volto umano di Dio

A dieci anni dalla canonizzazione, Interris.it ricorda la figura di papa Wojtyla attraverso la testimonianza di Gian Franco Svidercoschi, suo collaboratore e vaticanista

Giovanni Paolo II
Foto © VaticanNews

Roma come immensa assemblea della fede. Non nella presenza fisica delle sue chiese ma dei fedeli, provenienti da ogni parte del mondo. Metro affollate, fin dalle prime ore dell’alba. Ogni lingua d’asfalto, a ridosso della Basilica di San Pietro, occupata da chi aveva cercato di essere più vicino possibile al centro della Piazza, dinnanzi alle effigi degli ancora beati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. In una giornata, quella del 27 aprile 2014, destinata a passare alla storia come convergenza della fede nella sua massima espressione nel mondo moderno. Del resto, come disse Papa Francesco nell’omelia della Santa Messa di canonizzazione, entrambi “sono stati sacerdoti, e vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia”.

Uno, il papa del Concilio. L’altro, colui che ne incarnò lo spirito, accompagnando il mondo nel Nuovo Millennio. Ricorda a Interris.it Gian Franco Svidercoschi, giornalista e collaboratore di san Giovanni Paolo II: “La santità in Wojtyla? Bastava vederlo pregare…”.

 

Quel giorno, a Roma, era tangibile l’universalità della fede. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II possono essere definiti i primi papi ad aver internazionalizzato l’operato della Chiesa?

“In effetti sembrò abbastanza singolare il fatto che avessero unito le due canonizzazioni. In qualche modo si dava meno risalto all’uno o all’altro. Sembrava una decisione per certi aspetti ‘politica’, ossia mettere d’accordo i sostenitori del presunto Papa progressista, Giovanni XXIII, e quello conservatore, G.P. II. Invece, alla fin fine, è stata una decisione giusta. Hanno messo insieme i due papi che hanno avuto un peso determinante nel Concilio. Il primo per averlo convocato e aperto, il secondo che ne è stato l’interprete e l’esecutore più fedele”.

La cui santità fu invocata immediatamente…

“Questa invocazione rispondeva alla considerazione che tutti avevano fatto su questo Papa e su quello che era stato. Era talmente un uomo che viveva di Dio che non poteva non essere santo. Anche per come egli considerava la santità”.

Cos’era la santità per Giovanni Paolo II?

“Nel documento che preparò il Giubileo, Novo Millennio Ineunte, definiva la santità la misura alta della vita cristiana ordinaria. Faceva capire che era cosa di tutti i giorni, fare la volontà di Dio. E a lui, la santità ha riconosciuto una vita di fede che lui ha condotto fin dall’inizio. Bastava vederlo pregare. Io ho avuto la fortuna e il privilegio di vedere quel suo rapporto così intimo e così pieno di mistero con Dio”.

Ricorda un episodio in particolare?

“Quando andò a Fatima per la seconda volta, per ringraziare la Madonna che lo aveva salvato dall’attentato, è arrivato nella piazza e si è messo a pregare. Lui, definito un grande comunicatore, fece quello che era quanto di più contrario per la comunicazione odierna: con tutte quelle televisioni, lui rimase venti minuti a fare il Papa, a pregare. L’intera sua giornata era di preghiera. Eppure era un uomo normale”.

In molti, tra coloro che gli sono stati vicini, hanno notato questo tratto…

“Colpiva come lui avesse rotto questa barriera che esisteva da secoli tra Dio e l’uomo, come fosse in qualche modo il Papa dell’incarnazione, che ha mostrato il volto umano di Dio”.

Forse è questo aspetto che ha saputo attirare l’attenzione e il cuore dei giovani?

“Quei giovani sono ritornati in piazza per tre giorni, durante l’agonia del Papa. Ma basta ricordarsi i giorni del Giubileo, i milioni di ragazzi e ragazze a Tor Vergata. È incredibile come riuscisse ad avvicinarli. Era in qualche modo una continuazione di quanto fatto a Cracovia, prima da prete e poi da vescovo: parlava di Dio in un modo che i giovani comprendevano. E lui stesso diceva che, da loro, imparava a fare meglio il Papa. Alla fine, quei hanno vissuto i giorni della sua agonia in modo intenso. Don Stanislao Dziwisz, il segretario del Papa, mi disse che da lontano si sentivano le loro grida. Che poi, pian piano, hanno lasciato il posto a un enorme silenzio quando hanno capito che lui stava ‘restituendo a Dio la vita che gli era stata data’.

In altri momenti è stata tangibile l’incidenza di Giovanni Paolo II sulla fede vissuta nel quotidiano, anche all’indomani della sua morte.

“Fu incredibile quel lungo pellegrinaggio che vi fu alla sua tomba. Ai tempi sentivo le testimonianze più diverse e meravigliose sul piano della semplicità della fede. Mi ricordo una signora che diceva: ‘Mi manca’. Chiese anche a me cosa provavo e io le risposi: ‘Quando morì mio padre, ho sentito la mancanza della sua mano sulla spalla. Morto Giovanni Paolo II, ho sono sentito un vuoto dentro’. Riempiva la tua umanità, la tua fede, l’amicizia. Mostrava il volto umano di Dio nella normalità della fede”.

Eppure fu un Papa dai grandi gesti. Resi ancora più risonanti dalla semplicità con cui li ha compiuti. Basti pensare al suo “grido” nella Valle dei Templi…

“Era un uomo mite ma, in certe situazioni, sapeva far sentire la propria voce. Nella Valle dei Templi di Agrigento incontrò i genitori del giudice Livatino e un vescovo del posto, che gli raccontò i comportamenti criminali della mafia: da lì nacque quel ‘grido’. Era un profeta perché, come i profeti antichi, sapeva interpretare la presenza di Dio nella storia. Ma anche per come sapeva invocare il giudizio di Dio sulla criminalità degli uomini”.

Fu quella visione profetica che lo portò a guardare negli occhi i grandi cambiamenti del Novecento?

“Sentiva profondamente il valore della vita, di come dovesse essere vissuta e non trattata in maniera ingiusta, violata, condannata. Mi colpì quando andò alla Penisola di Gorée, in Africa, da dove partivano le navi cariche di schiavi verso il Continente americano. Lui rimase a guardare il mare, a rivedere la storia. E nella prima tappa fatta in aereo, chiamò alcuni cardinali, incluso il cardinal Bernardin Gantin, africano, per fare un discorso contro chi sfruttava quel continente”.

Che effetto fece la nomina di un Papa non italiano?

“Ora questo aspetto fa meno ‘colpo’, viste le nazionalità dei suoi successori. Pensiamo però a ciò che è stato il 16 ottobre 1978, quando è stato annunciato il suo nome, che addirittura molti presero per africano: erano 456 anni che non veniva eletto un Papa straniero. Peraltro, lui proveniva dall’altro lato della cortina di ferro. Oltretutto da un Paese soggiogato dall’Unione sovietica. E ricordo la paura che questo Papa scombussolasse i compromessi dell’Occidente con l’Urss. Se il Papa non fosse stato polacco ma cecoslovacco o ungherese, non avrebbe avuto lo stesso effetto. Perché la Polonia non sarebbe stata sostenuta da una persona così importante. Il fatto stesso di non essere italiano ha dato in qualche modo più credibilità alla Chiesa, nel suo massimo momento di universalità. Anche se gli anni passano, la gente lo ricorda per quel che ha fatto e detto”.

Giovanni Paolo II ha incarnato la Storia perché l’ha vissuta su sé stesso. Anche quando dovette lottare per la sua vita a seguito dei fatti del 13 maggio 1981…

“Adesso ci si dimentica quasi del fatto che qualcuno abbia sparato, in Piazza San Pietro, al capo della Chiesa. Circa due anni dopo l’attentato, il Papa avrebbe voluto scrivere una lettera ad Alì Agca, curioso di capire se questa persona avesse chiesto perdono. Sconsigliato dal far questo, decise infine di andare di persona nel carcere dov’era detenuto. E lui stesso mi raccontò che, appena arrivato, gli diede la mano dicendogli: ‘Oggi ci incontriamo da buoni fratelli’. Al che si sentì rispondere: ‘Ma lei perché non è morto? Io ho mirato bene’. È uno dei grandi dispiaceri avuti da Giovanni Paolo II, il fatto che Alì Agca non avesse mai chiesto perdono”.

Possiamo dire che Giovanni Paolo II era un Papa che non aveva perso la sua vocazione di sacerdote?

“Era rimasto un uomo. Ti guardava in faccia. Io ho collaborato a due film incentrati sul Papa. Il primo fu intitolato: ‘Karol – Un uomo diventato Papa’. Ma quando si decise di fare il seguito, su consiglio di monsignor Sandri scegliemmo di intitolarlo: ‘Karol – Un Papa rimasto uomo’. Proprio per indicare questa capacità di mantenere umanità in qualsiasi situazione. Ricordo quando in Brasile, entrando in una chiesa, notò una signora in un angolo assieme a una bambina. Si inginocchiò accanto a questa bambina, non vedente, raccontandole chi fosse. E lei lo toccava, capendo come fosse vero quanto le stava dicendo”.

Giovanni XXIII evita la deriva bellica nel 1961. Giovanni Paolo II accompagna il mondo allo smorzamento delle tensioni della guerra fredda. Questo dono di pace è il tratto comune dei loro Pontificati?

“Sicuramente ce n’è più di uno. Quella canonizzazione duplice credo abbia rappresentato bene il passaggio della Chiesa tra i due Millenni. C’è stato un Papa, di 78 anni, che ha avuto il coraggio di indire un Concilio, assumendo posizioni forti già allora, come al tempo della crisi dei missili di Cuba. Pochi ricordano, però, che Giovanni Paolo II si trovava in Inghilterra quando scoppiò la crisi tra Regno Unito e Argentina per le Isole Falkland. E lui, appena tornato, partì per l’Argentina per attenuare le tensioni. Questi due papi hanno fatto tanto per la Chiesa ma anche per il mondo e l’umanità”.