I tre capitoli del viaggio apostolico di Francesco in Mongolia

mONGOLIA

Un viaggio in Mongolia non può che apparire nella sua evidenza di viaggio nel solo spazio esistente tra Russia e Cina, il Paese che ha tentato di invadere l’Ucraina dando il via a un conflitto che non fa ancora vedere la sua conclusione e quello che sta perseguendo e determinando nuovi assetti planetari. Ma il papa non va in Mongolia solo perché si trova tra Stati decisivi, ma anche per incontrare quel popolo, con i suoi problemi, il suo ruolo e le sue speranze. Un viaggio che oltre al contesto offrirà certamente un testo, articolato in tre capitoli: ecclesiale, politico e ambientale.

Il più evidente è il primo, quello ecclesiale. La Chiesa cattolica in Mongolia conta circa 1500 praticanti. Difficile immaginare folle oceaniche a Ulan Baataar quando il papa vi arriverà. Il solo modo per starci è lavorare per attrazione, non per affermazione. E’ lo stile che Francesco propone con la sua idea di Chiesa missionaria, non solo in Mongolia, ma nel mondo e quindi anche in Asia, che il papa vedrà meglio dalla periferia mongola. La Chiesa in Mongolia è missionaria per necessità e per fortuna, e sta facendo egregiamente il suo lavoro locale, impegnandosi in progetti costosi e indispensabili per le sfide che la realtà ha imposto: l’urbanizzazione galoppante ha fatto emergere oltre alle difficoltà di un necessario ma non raggiunto sviluppo agricolo anche nuove emergenze sociali come l’alcolismo e la violenza domestica, oltre all’inquinamento. È su queste frontiere che l’impegno ecclesiale di una piccola chiesa offre un esempio continentale ponendosi in relazione con le paure e le speranze di tantissimi. Non a caso “sperare insieme” è il motto del viaggio. Nulla dunque vi è che rinnovi gli spettri del passato, quando i cattolici in questa parte di mondo apparvero al servizio più dei colonialisti che delle popolazioni indigene: “sperare insieme”. Il progetto per la diffusione di nuove serre essenziali anche a migliorare la dieta mongola non è rivolto solo ai cattolici, o a chi è disposto a convertirsi: “sperare insieme”, è lo slogan non solo di un viaggio ma di un’altra epoca proposta alla Mongolia e all’Asia, quella di cui il papa viene a parlare non solo ai mongoli. Che questo sia il modo migliore per far archiviare anche i lasciti sovietici che negli apparati statali permangono appare logico. Ma il difficile rapporto tra Stato e fedi non è solo di matrice sovietica, e non angustia solo i cristiani.

Si arriva così agli interlocutori. Il buddismo è l’interlocutore religioso e qui emerge la prima sfida, che ha certamente molto da dire non solo alla Mongolia: questa sfida si chiama Cina. La diffusione più rilevante è infatti quella del buddismo tibetano e quando si parla di questo si parla del Dalai Lama, e dei problemi che ciò comporta con Pechino, per la decisione con cui Pechino ha colonizzato il Tibet e tenta di cancellarne le radici religiose e buddiste. La visita del Dalai Lama in Mongolia, nel 2016, fu un bruttissimo segno per Pechino e tutto si aggravò con la sua scelta di dichiarare la decima reincarnazione del Jebsundamba, capo spirituale del buddismo in Mongolia, da Dharmshala, sede del governo tibetano in esilio. Quell’atto ha ulteriormente allarmato Pechino. La Cina aveva appena tentato di nominarne uno ad essa gradito. Le protervie cinesi portano alla difesa del buddismo ma anche a sinofobia. Tutto questo non può che suonare familiare ai cristiani, che sanno bene come la scelta dei vescovi abbia costituito un rompicapo per i cattolici alle prese con quelli fedeli al papa, come è ovvio, e quelli fedeli solo a Pechino, come è ovvio solo per Pechino. Oggi la Santa Sede, come è noto, è alle prese con la difficile gestione dell’accordo provvisorio con Pechino che riguarda proprio la cruciale questione della nomina dei vescovi e della loro duplice fedeltà, al papa quali vescovi cattolici e a Pechino quali vescovi e cittadini cinesi. Le esuberanze della Cina non sono certo finite, né si è spenta la memoria del doloroso passato e delle imprese coloniali alle quali il cristianesimo è stato associato. Si può dunque ben vedere, come ha scritto Jerome O’Mahony su The Tablet, che questo viaggio alla luce dell’esperienza maturata dal papa e dal suo segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, possa non solo tornare a parlare di una relazione antica tra cristianesimo e Mongolia, non solo novecentesca, ma soprattutto disegnare i nuovi contorni di una relazione tutta nuova tra autorità religiose e governi in quella parte di mondo. Anche l’Europa ha conosciuto concordati e ingerenze governative nella vita ecclesiale, non c’è da menare vanti o teorizzare guerre di civiltà, piuttosto mettere a frutto le esperienze e la reciproca conoscenza, i cambiamenti che questa ha prodotto riducendo la diffidenza. Nei limiti del possibile, ovviamente.

Siamo così al terzo capitolo, quello ambientale. Non si tratta solo di quell’idea di uno spazio, un ambiente legato alle sue tradizioni culturali tra due imperi, Russia e Cina, che hanno uniformato al sistema han (il più grande gruppo etnico al mondo, maggioritario in Cina) e russo-sovietico spazi enormi come il Tibet e la Siberia. C’è questo, ma non solo questo: la Mongolia infatti è il secondo polmone del mondo. Se quello amazzonico è noto come il primo polmone del pianeta, il papa che sta aggiornando l’enciclica Laudato sì per la sua drammatica attualità sa certamente che hanno ragione i mongoli dicendo che “la loro terra ancestrale è il secondo polmone del pianeta. Mentre la foresta amazzonica è fondamentale per assorbire le emissioni di anidride carbonica del mondo, l’Asia centrale filtra l’acqua che irriga il resto dell’Asia. In particolare, la Mongolia occupa sei diverse zone ecologiche, che si trovano al punto di incontro tra i flussi vitali europei e asiatici”. Lo ha scritto su The Diplomat Michel Chambon che ha opportunamente concluso il suo articolo con queste parole: “C’è una buona ragione perché Papa Francesco visiti la Mongolia. Grazie alla sua posizione geografica e alla sua storia unica, la Mongolia può svolgere un ruolo più centrale nelle sfide geopolitiche e ambientali della nostra epoca. Il secondo polmone del nostro pianeta deve essere sano e forte per ravvivare le conversazioni internazionali sul riscaldamento globale, la sovranità nazionale e l’economia globalizzata. Allo stesso tempo, la Santa Sede spera che le autorità mongole possano adeguare il loro approccio nei confronti delle istituzioni e del personale cattolico per favorire future collaborazioni”.