Spiritualità

“Amore ci vuole”: San Camillo, testimone fra gli infermi

Alla pandemia del virus vogliamo rispondere con l’universalità della preghiera, della compassione, della tenerezza”, ha affermato Papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa. In più occasioni il Pontefice si è soffermato sul valore della tenerezza, parola – ha spiegato – che “oggi rischia di cadere dal dizionario!”. “Dobbiamo riprenderla e attuarla nuovamente – ha ribadito –. Il cristianesimo senza tenerezza non va. La tenerezza è un atteggiamento propriamente cristiano; è anche il ‘midollo’ del nostro incontro con le persone che soffrono”.

In questi giorni di grande prova, abbiamo un esempio mirabile di cosa significhi dedicarsi con professionalità e tenerezza ai sofferenti. Medici e infermieri, al limite estremo delle loro forze, continuano con abnegazione e coraggio a donare la propria vita ai malati. Una testimonianza cristiana di servizio quotidiano e instancabile a favore dei malati ci viene offerta da un santo vissuto quasi 500 anni fa. È San Camillo De Lellis, patrono dei malati, degli ospedali e del personale sanitario. Nato nel 1550 a Bucchianico (Chieti) da una famiglia appartenente alla piccola aristocrazia, si convertì a 25 anni dopo aver condotto una vita dissoluta. Ricoverato in un nosocomio per curarsi una ferita al piede, da paziente divenne infermiere; e al vedere lo stato pietoso in cui versavano gli ammalati, soprattutto quelli chiamati “incurabili”, maturò l’idea di spendere la sua esistenza per assisterli.

Amore ci vuole – sosteneva – non basta il salario! Solo l’amore può risollevare queste povere membra di Cristo. Voglio organizzare una compagnia di uomini pii e da bene, che non per mercede, ma volontariamente e per amor di Dio, servano gli infermi, con la carità e l’amorevolezza che hanno le madri per i propri figli infermi”. E così nel 1582 creò la “Compagnia dei Ministri degli Infermi” che 9 anni più tardi venne riconosciuta come Ordine religioso da Papa Gregorio XIV. Si narra che in un momento difficile un crocifisso gli parlò dicendo: “Di che t’affliggi, o pusillanime. Continua ch’io t’aiuterò perché questa è opera mia e non tua!”. San Camillo e i suoi confratelli – riconoscibili per la croce rossa cucita sull’abito religioso – erano sempre in prima linea quando c’erano grandi calamità, come le epidemie di peste così frequenti in quegli anni. “Beati voi – amava ripetere –. Che avete così buona occasione di servire Dio al letto dei malati. Beati voi! Padri e Fratelli miei, che andate in quella santa vigna dell’ospedale”.

Nel suggerire il metodo più efficace nella cura dell’ammalato, soggiungeva semplicemente: “Mettete più cuore in quelle mani”. Adorava l’infermo come la persona del Signore, introducendo e curando personalmente il rito dell’accoglienza: a ogni malato, ricevuto alla porta e abbracciato, venivano lavati e baciati i piedi; poi, spogliato degli stracci e rivestito di biancheria pulita, era sistemato in un letto ben rifatto. Un giorno, dopo aver pulito un degente, aveva le mani molto sporche e un suo frate lo guardava schifato. “Il Signore Iddio – disse al confratello – mi faccia la grazia di farmi morire con le mani impastate di questa santa pasta di carità”. Esortava i malati a pregare per la sua anima, che reputava mai adeguatamente purificata e comunque sempre debitrice, nei confronti di Cristo e dei fratelli. Se non si trovava accanto agli infermi era perché sostava in adorazione davanti al Tabernacolo, conscio dell’importanza della contemplazione come fonte e motore della carità.

Al termine della sua vita San Camillo ha lasciato in eredità quattordici conventi, con 80 novizi e 242 religiosi professi, oltre ad avere la responsabilità di otto ospedali. Ora i camilliani sono presenti in tutto il mondo portando avanti l’opera infaticabile del loro fondatore. San Camillo è stato un santo moderno, all’avanguardia. Secondo Giovanni Paolo II ha avuto “intuizioni e indicazioni che saranno riprese in gran parte dalla scienza infermieristica dei nostri giorni”, come “l’importanza di considerare con attenzione e rispetto tutte le dimensioni dell’ammalato, da quella fisica a quella emotiva, da quella sociale a quella spirituale”.

Macario Tinti

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