Opinione

La svolta conciliare ha ravvivato la cristianità

Dove va la Chiesa? Per tentare una risposta bisogna tornare indietro sessant’anni fa e ripartire da quella svolta decisiva che fu per il cattolicesimo il Concilio Vaticano II. Sessant’anni da quando giovanissimo cronista venni inviato dall’agenzia Ansa in Vaticano. Da allora, giorno dopo giorno, ho seguito la traiettoria della Chiesa nel passaggio di millennio. Sei Papi, una religiosità che si rinnovava, ma anche crisi profonde e scandali. Una Chiesa tornata ad essere compagna di viaggio dell’umanità, a condividerne speranze, conquiste, ma anche sconfitte, continui sconvolgimenti. Inclusa una tragedia che ha scosso l’intero pianeta e, per certi aspetti, la Chiesa stessa. Eppure, proprio da come molte persone hanno reagito alla pandemia, proprio dall’inquietudine che le ha riportate a guardarsi dentro, s’è avvertito che si stava in qualche modo ricomponendo l’antica scandalosa frattura tra fede e vita. Come dire che la rivoluzione avviata sessant’anni fa dal Concilio cominciava finalmente a dare i suoi frutti: non tanto nelle mille riforme canoniche o istituzionali, ma all’interno delle coscienze. All’epoca il segnale conciliare fu netto.

La Seconda guerra mondiale era finita da tempo, ma la pace era sempre in pericolo. Si inaspriva lo scontro tra Usa e Urss, e presto si sarebbe arrivati alla costruzione del Muro di Berlino. Allo strapotere dei Paesi ricchi del Nord si contrapponeva un Sud estremamente povero, emarginato, pronto a esplodere come una polveriera. E intanto, era tutto un susseguirsi di grandi trasformazioni: l’emancipazione della classe lavoratrice, i primi sussulti del mondo giovanile, il tramonto del colonialismo, e un progresso che sembrava senza fine, con già le anticipazioni di una rivoluzione tecnologica che avrebbe avuto profonde conseguenze non solo sul piano sociale ma perfino su quello antropologico, su quello etico. E la Chiesa? La Chiesa si portava dietro i condizionamenti sia della cosiddetta “epoca costantiniana” (che presupponeva l’esistenza di una “societas” destinata a essere per sempre impregnata della religione cristiana), sia di un certo spirito negativo della Controriforma (che era sfociato in un atteggiamento troppo giuridico, clericale, moralistico). Non solo. Dall’inizio del XIX secolo, in reazione ai dissidi interni (il modernismo) e alle minacce esterne (il razionalismo filosofico e soprattutto il materialismo ateo del marxismo), la Chiesa si era caratterizzata per una sempre più accentuata uniformità sul piano del governo, su quello liturgico e pastorale, con una conseguente stagnazione a tutti i livelli ecclesiali. E, peggio ancora, con una situazione che poteva dar a credere che fosse stato raggiunto il massimo di cristianizzazione, mentre in realtà si andava espandendo una religiosità più che altro anagrafica.

Proprio per questo, e intuendo ciò che si andava preparando sulla scena del mondo, Giovanni XXIII – il Papa che un po’ tutti, per l’età avanzata, consideravano un “Papa di transizione” – aveva preso quella decisione, pur così rischiosa. E poi, nemmeno tre mesi dopo l’elezione, l’aveva annunciata ai cardinali di Curia. Era il 25 gennaio 1959. E, nel cenobio benedettino accanto alla basilica di san Paolo, i porporati, a sentire quella parola, Concilio, erano rimasti scioccati, increduli. E, aveva commentato ironicamente il Pontefice, avevano reagito con un “impressionante devoto silenzio”. Era la reazione di una Chiesa che non voleva cambiare nulla, perché aveva paura di cambiare. E che, nella fase preparatoria, avrebbe compiuto sistematicamente un’opera di contenimento, di opposizione, al fine di condizionare i vari schemi in una direzione ben precisa. Ma Giovanni XXIII non si era scoraggiato. Non era passato al contrattacco, e però, in questo modo, si era riservato uno spazio di libertà e di azione che gli aveva permesso di portare avanti il suo programma di “aggiornamento”. Programma che papa Roncalli confermerà tutto nel suo eccezionale discorso all’apertura delle assise.

Gianfranco Svidercoschi

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