Opinione

Il contributo della Santa Sede in difesa della pace nel mondo

Se è vero che per la crisi ucraina, forse perché esplosa all’improvviso, s’è avvertita una certa inadeguatezza della diplomazia occidentale, questo però non può far dimenticare il grande e spesso decisivo contributo che i Papi e la Santa Sede hanno dato, in anni così difficili, in difesa della giustizia e della pace nel mondo. Un contributo segnato dalla credibilità, dall’autorevolezza, proprio perché discendeva da un Concilio che aveva riportato la Chiesa tra gli uomini, e l’aveva liberata da secolari compromissioni mondane, ne aveva accentuato l’afflato evangelico. Rivoluzione incompiuta

Dunque, per riassumere, il Vaticano II fu davvero un “nuovo inizio” per il cattolicesimo, sul piano spirituale, pastorale, come su quello ecumenico e temporale. Niente, nella Chiesa, fu come prima. Nessuno, si diceva, potrà negarlo. Adesso però – e qui entriamo nella seconda parte della riflessione – bisognerà anche cercare di capire perché la rivoluzione conciliare, dopo sessant’anni, non sia stata realizzata pienamente. Com’è stato possibile stravolgere l’insegnamento del Concilio, il suo valore profetico, fintanto a considerarlo – anche se è il giudizio della minoranza conservatrice più estremista – opera dell’Anticristo, l’origine di tutti i mali di cui soffre oggi il cattolicesimo? All’inizio, terminate le assise ecumeniche, ci fu una esplosione di entusiasmo, di vivacità ecclesiale.

Uno storico francese, Emile Poulat, scrisse che la Chiesa cattolica era cambiata più nei dieci anni seguiti al Vaticano II che non nei cento anni precedenti. Verissimo. Ma è anche vero che la classe clericale prestò più attenzione ai cambiamenti di ordine istituzionale e strutturale – come la creazione di un Sinodo dei Vescovi – che non a quelli sul piano pastorale, e che riguardavano ovviamente l’intera comunità cattolica. Con le sue novità, a cominciare dall’uso delle lingue volgari nella Messa, la riforma liturgica aiutò sicuramente la massa dei credenti a respirare la nuova aria che circolava nella Chiesa, e a immetterla nella propria quotidianità spirituale, Ma, e questo fu un primo limite, mancò l’impegno fattivo dei vescovi e soprattutto dei parroci a “raccontare” il Concilio ai laici cristiani, a spiegargli il significato dei nuovi gesti che essi compivano, delle nuove parole che pronunciavano, delle nuove responsabilità di cui i Papi – come Paolo VI con l’“Humanae vitae” – li chiamavano a prendersi carico. Come dire, molto in sintesi, che il Concilio rimase un fatto essenzialmente “clericale”. Nel popolo, dunque, non ci fu quel processo di interiorizzazione del Vaticano II che avrebbe dovuto portarlo a una nuova maniera di vivere la fede, di testimoniarla nella vita di tutti i giorni.

Gianfranco Svidercoschi

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