Vent'anni senza Faber, il poeta della città vecchia

Faber non è solo un'assonanza del nome: Faber perché a De André piacevano quei pastelli, sì. L'amico Villaggio glielo attribuì pare per questo, probabilmente rendendosi conto di quanto il nomignolo fosse azzeccato. Faber perché costruiva immagini con le parole, Faber perché alla rudezza del tratto pennellato preferiva quello delicato della mina colorata. Colori annebbiati, certo, non solo dal fumo della sigaretta che saliva sopra la chitarra: fumoso perché di bello e trasparente c'era nulla o quasi, nei suoi testi ma anche nella sua musica, fatta per far pensare. Storie dietro al velo che copre gli occhi al benpensante, storie di “ultimi”, come vengono definiti, ma anche di umili, di vite dietro le vite. Quello che raccolse dalle creuze della Genova degli anni '60, dai fervori di un'aspirata rivoluzione che aveva preferito guardare dalla parte opposta, da quel lato rimasto fuori dalla letteratura. Bello perché cantarla e basta si può, ma se non l'ascolti con la sua voce non sembra essere la stessa cosa. Musica e parole in De André erano quasi una cosa sola: non c'era l'uno senza l'altro, così come non c'erano storie senza discussioni: c'era da parlarne, da discuterne. Perché sull'arte c'è bisogno di parlare, di confrontarsi, di apprezzarne anche il lato meno esteticamente impeccabile. Il bello è quello.

Sfumature imperfette

La sterminata produzione autorale potrebbe rientrare in un'antologia di qualche centinaio di pagine. Del De André autore è stato scritto di tutto, tanto che tornare su opere e musiche sarebbe ridondante. La parte migliore del racconto è rendersi conto che tutto quanto cantato dal '60 a oggi non sia poi così diverso. Cambiano i contesti, le generazioni ma dietro il fumo invisibile c'è sempre una Città vecchia o un amico fragile. Un mondo che lo avvicinava alla religione. Lui, lontano forse dalla fede ma non da quel Dio in cui, diceva, “nonostante tutto, continuo a sperare”, quell'entità “al di sopra delle parti, delle fazioni”. C'è ancora chi ragiona sulla possibilità di distinguere poeti e musicisti, senza magari rendersi conto che se il testo funziona è anche perché accompagnato da note che sono poesia a loro volta, scandite da una voce che può cambiare ma che fatica a rinunciare alla sfumatura di chi l'ha creata. Forse è anche questo il segreto di Faber: riuscire a cantare gli “ultimi” con quella nota imperfetta, che fa discutere i cultori del bello ma che stimola la mente alla creazione dell'immagine.

Musica e parole

A vent'anni dalla morte del cantautore quel tratto manca ancora. Quello che fa preferire il pastello alla sferzata del pennello. Quel passaggio che separa la Città vecchia dal mondo del quale ci sentiamo parte. Questo non vuol dire che dei suoi testi non se ne possa discutere. Niente di male, d'altronde lo scopo è proprio quello. Parlare senza far parlare, discutere senza far discutere, ragionare senza far ragionare, punzecchiare senza essere punzecchiati. No, non è questo che rende la poesia musica e la musica poesia. Perché la canzone è un messaggio, forse uno dei più potenti. E discernere su cosa si celi dietro le note è forse la parte migliore. Se poi il tutto è messo non dietro ma dentro la musica stessa, ecco, quello è il disegno. Quello tratteggiato con il pastello. Sulle cui sfumature è costruito il linguaggio, il senso, il messaggio. Poi raccontarlo, a ritmo di corde pizzicate e con particolari sfumature vocali, quello bisogna saperlo fare. Roba per pochi forse, di sicuro per Faber perché dove finivano le sue dita, doveva “in qualche modo incominciare una chitarra”.