Mogol: “Fare musica vuol dire essere credibili”

Non si commuove, né incrina la voce Giulio Rapetti, in arte Mogol, quando ricorda il suo passato. Sono le emozioni di tanti italiani – e non solo – a parlare, quelle che per lui potevano anche solo essere sussurrate: Tu chiamale se vuoi, emozioni. Mogol racconta che quella frase gli venne di getto mentre era alla volta di Silvano d'Orba, vicino Ovada, in un Piemonte disegnato da campi che parevano usciti da un film neorealista. All'epoca non c'era ancora l'Autostrada dei Fiori e il benessere del Dopoguerra non era per nulla splendente come il boom americano, iconicamente rappresentato da Elvis the pelvis. Nessun rock around the clock, semmai il tempo nell'Italia del Dopoguerra era intermittente, come la corrente nei casolari sperduti dell'Alessandrino. Allora, la felicità poteva essere un carretto di gelati, diventato simbolo di un'evasione grazie a Battisti ne Giardini di Marzo. Mogol è nato e cresciuto in questa vita in bilico fra la città e la campagna e le sue canzoni sono la testimonianza più vera di un'esistenza fatta di “discese ardite e risalite”, di alte e basse maree.

Mogol rimane la firma della musica italiana: il sodalizio con Battisti, le canzoni incise nella memoria… Celentano, Bobby Solo. Il Maestro ha sempre preso la vita così, impastando il suo io con l'ambiente che lo circondava, lasciando contaminare quello che lui stesso chiama “l'io psicologico” dalle emozioni… sempre quelle, abbozzate da Lucio con un filo di voce. Sta lì il segreto della sua giovinezza, lo stesso che non lo rende poi tanto distante da quel bambino nato a Carugo, che si rifugiava in cantina con la gente che piangeva e pregava che non piovessero le bombe… Mogol ha saputo guardare più che ascoltare la musica. Le ha dato il giusto contenitore. Per questo, ancora oggi si rivolge ai giovani. Nel 2018, recandosi alla Berkley School di Harvard, ha voluto incontrare un centinaio di bambini di una scuola elementare. Oggi li scruta e li cerca, con quel guizzo immutato nonostante gli anni e la vita, quel talento insidiato in tutti, che aspetta di fiorire con la giusta luce.

Maestro, ha un ricordo della musica nella sua infanzia?
“Sono nato e cresciuto in parte in Brianza, a Carugo, ma non ascoltavo musica. Facevo canto, ma l'insegnante capì subito che ero stonato. In verità, non ero un grande ascoltatore di musica, non l'ascoltavo quasi mai”.

E com'è approdato alla musica?
“Lavoravo in una casa editrice musicale dove mio padre era direttore – la casa editrice musicale Ricordi, ndr – e mi occupavo dei testi musicali stranieri. Allora li pagavano 5.000 lire ed io guadagnavo 42mila lire al mese. Arrotondavo, e così ho cominciato a rimaneggiare testi stranieri: ho lavorato molto, ho appreso la tecnica che consiste nel sapere che cosa sta cercando di dire la musica, allora cercavo di tradurre i testi e quando non riuscivo a capirli o non mi piacevano li riadattavo. In seguito, molti testi sono diventati grandi successi italiani, ma erano miei testi, perché riadattati rispetto a quelli originali, come Senza luce (1967)”.

Quando ha cominciato a scrivere testi suoi?
“Dopo un tecnica ed esercizio, ho cominciato a scrivere testi in italiano, facendoli musicare dal maestro Donida, un grandissimo musicista che sapeva dare il senso della musica alle parole. Poi ho cominciato a scrivere sul senso della musica…la sentivo e cercavo di capire cosa diceva…quindi traducevo la musica in parole. È una cosa che bisogna fare riga per riga, frase per frase, perché ogni frase può avere un senso diverso, dal punto di vista musicale”.

La musica è traduzione, quindi?
“Traduttori sono tutti gli autori, in realtà. Io lo sono nel senso che cerco di intuire il senso della musica, a quel punto scrivo le parole su quel senso. È molto importante, perché se le parole dicono quello che dice la musica, danno una vera emozione”.

È noto il suo sodalizio con Battisti. Quanto è importante la figura del cantante nell'intreccio fra musica e parole?
“Più importante di questo è la capacità di essere credibili. Si canta non per far sentire la propria voce, ma per essere credibili su quello che si dice”

Ma così non c'è il rischio che la musica proceda al contrario?
“No, può capitare solo per i cantanti che cantano molto, perché cantare troppo diminuisce la comunicazione. Di solito, le emozioni noi le riceviamo parlando, per cui dobbiamo farlo in modo credibile, seguendo la musica. Come Battisti e Vasco Rossi, Arisa o Gianmarco Carroccia: loro misurano le parole sul senso del testo. Seguono certamente la melodia, ma la esprimono in modo credibile”.

Prendiamo, per esempio l'aria Casta Diva, resa popolare dalla Callas. In questo caso viene prima l'interprete, il testo o la musica?
“Il caso della Callas è diverso. Nell'opera lirica, la voce ancora conta. Nel pop, invece, conta la credibilità di quello che si dice”.

Quest'anno ricorre il 70esimo Festival di Sanremo. Qual è il suo bilancio per lei, che si è formato su quel palco?
” Adesso, vanno di moda le canzoni senza melodia, solo con una base ritmica e le parole. In generale, i rapper, i trapper parlano. Il rap, per esempio, è una base ritmica con le parole, manca la melodia, per cui viene meno quella parte di comunicazione che riguarda l'emozione. Se da una parte, manca il supporto melodico, dall'altra acquista un senso nuovo, perché si dicono parole 'parlate', appunto”.

Ed è un limite, secondo lei?
“È questione di gusti. La musica di questo tipo si riferisce ai giovani, non è musica per tutti. Ma io non sono contro i giovani, ho cercato sempre di aiutarli a imparare, a scrivere a grandi livelli. Ho persino creato una scuola e ho fatto 28 anni di lezioni gratuite. Sto ancora andando incontro ai ragazzi per fare con loro non solo corsi di formazione, ma anche di informazione, ossia permettere loro di migliorare anche da soli”.

Come vede la musica fra dieci anni?
“Non saprei. In cantiere ho una trasmissione televisiva importante dove farò una sorta di Sanremo: tre serate con allievi scelti da me personalmente, ho scritto io testi con la musica dei ragazzi. Ho intenzione di esprimere di nuovo la cultura popolare della musica italiana”.

I suoi testi sono colmi di trascendenza. Cosa esprimono?
“Nei miei testi sono molto autobiografico, perché non parlo – non l'ho mai fatto – di fiction, ma solo di momenti veramente vissuti. Questo è importante perché anche noi, poiché viviamo tutti gli stessi sentimenti, quando questi appartengono alla vita, la gente per istinto li comprende. E si emoziona”.