Una storia quella dell'acciaieria Ilva di Taranto che va avanti dal 2012, anno in cui la procura di Taranto richiese la chiusura del polo siderurgico con conseguente arresto dei suoi dirigenti, a causa delle intollerabili violazioni ambientali che costarono la vita di centinaia di persone. L'Ilva, nata a Taranto nel 1961, attualmente rappresenta la più grande acciaieria d'Europa che, se da un lato ha offerto centinaia di posti di lavoro per gli abitanti del luogo, dall'altro con le sue emissioni inquinanti avrebbe causato negli ultimi decenni un notevole numero di patologie tumorali, fra operai e residenti della città. Lo scorso 26 luglio, Patrizia Todisco, gip di Taranto, ha firmato un provvedimento di sequestro senza facoltà d'uso dell'acciaieria e le misure cautelari per alcuni degli indagati ritenuti complevoli del disastro ambientale nell'ambito dell'inchiesta.
Ma a che cosa potrebbe portare la chiusura dell'Ilva? Lo Stato ha veramente le forze economiche per salvarla? Secondo l'economista Giuseppe Di Taranto, professore ordinario di storia dell'economia e dell'impresa Luiss, “sì, ma il vero problema è in quale modalità si potrebbe effettuare questo salvataggio. Perché con l'intervento della Cassa depositi e prestiti lo stesso intervento dovrebbe poi essere valutato dalla Commissione europea perché potrebbe apparire come un aiuto di Stato. Ma un'altra domanda, secondo me ancora più urgente che dovremmo porci, non è tanto quella di salvarla ma perché è stata persa l'Ilva. A mio avviso, infatti andava mantetuto lo scudo penale, perché ha dato un alibi alla Mittal di poter andare via”.
In questo momento, dice il prof Di Taranto, “questa guerra dei dazi fra Trump e la Cina ha fatto sì che quest'ultima esporti dell'acciaio a bassisimo costo ma di una qualità altamente inferiore, provocando una concorrenza sleale e provocando la crisi della Mittal in Italia e nei vari paesi in cui produce. Una vera e propria crisi totale dell'acciao con un'impresa che, non riusciendo a produrre, si trova costretta a fare un passo indietro. Inoltre, dal momento che si palesa una concorrenza sleale da parte della Cina, non potremmo nemmeno incolpare fino in fondo la Mittal per la scelta di andare via dall'Italia o da qualunque altro paese in cui produca”. In caso di addio definitivo, il problema cruciale risulterebbe lo stesso che ha caratterizzato l'intera vicenda dell'ex Ilva, ovvero la bonifica dell'area dove gli impianti sorgono. Problematica che, da solo, lo Stato potrebbe non riuscire a risolvere: “Non è chiaro in quali condizioni né in quale modo riuscirebbe a farlo, né come utilizzerebbe eventualmente il sito degli impianti. Questo resta un grande interrogativo del futuro“.
Nel frattempo, il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli è intervenuto sul caso: “Chi deve fare il primo passo è l'azienda e non deve parlare più di 5 mila esuberi”. Inoltre, ha detto ancora il ministro, “se dobbiamo farne uno ad aziendam non siamo d'accordo. Si parli invece di una norma generale, all'interno di un percorso che ripristini la produttività dell'ex Ilva”.
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