I cinque Paesi più pericolosi al mondo

Se si potesse creare il time-lapse di una mappa geopolitica globale, nell'ultimo decennio risulterebbero diverse trasformazioni nei confini fra i vari Stati. Gli anni alle nostre spalle, infatti, sono stati caratterizzati da conflitti di ogni sorta, ampi o intessuti a livello locale. Spesso, i contesti più fragili ereditano un passato altrettanto difficile dove, come spesso accade, lo status bellico coincide con decenni di divisioni e ingerenze. Per questo, tracciare una mappa dei cinque luoghi più pericolosi al mondo è assai delicato. Eppure, fra gli Stati del globo, ve ne sono alcuni in cui le guerre si sono così cronicizzate da poter essere considerati come “luoghi fuori controllo”. Eccone alcuni fra i più pericolosi.

Il Sahel, la fascia della violenza

Il Sahel è quella fascia geografica del Nord Africa a sud del deserto del Sahara che in senso stretto va dal Senegal all'Eritrea passando per Gambia, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Algeria, Niger, Nigeria, Ciad, Camerun, Sudan, Sud Sudan. Per ragioni di vicinanza io aggiungo anche la Libia. È un'area caratterizzata dalla presenza di gruppi armati in lotta fra di loro per la conquista del potere politico, a cui si affiancano le due principali organizzazioni terroristiche internazionali di matrice jihadista (Al Qaeda e lo Stato Islamico) e bande criminali. In molti casi è difficile distinguere fra queste tre realtà. Il Sahel è attraversato dalle rotte dei traffici illeciti quali quelli di droga e quello di esseri umani (per non parlare quelli di armi, sigarette, ecc.). Da tali traffici ricavano utili i tre soggetti visti sopra e altri quali i funzionari corrotti di vari paesi, nonché clan e tribù locali. A fianco di nazioni con gravi problemi di stabilità (Libia, Sudan, Sud Sudan, Mali) ve ne sono altri in crescente difficoltà (Algeria, Nigeria, Camerun, Burkina Faso) mentre i restanti non possono dormire sonni tranquilli, a causa del pericolo di straripamento della violenza e dall’instabilità, che partendo dai territori più a rischio può travolgere i vicini. Vicini che non hanno i mezzi per resistere e hanno già i loro problemi: economie deboli, povertà diffusa, instabilità politica, crescente radicalizzazione politica e religiosa.

La fascia del Sahel: nel colore più scuro, le aree a “molto alto” e “alto” rischio – Mappa © Inform

Somalia, uguali ma divisi

La Somalia rimane un enigma, nel senso che smentisce molte delle convinzioni diffuse in materia di guerra civile. In breve, questo paese è composto a stragrande maggioranza da musulmani di etnia somala. Nonostante quindi esistano sulla carta le condizioni per l’omogeneità, che dovrebbe portare alla concordia e alla pace, da decenni la Somalia è sconvolta dal conflitto, aggravato dalla presenza di un gruppo terrorista di origine locale (Al Shabaab) che colpisce anche all’estero. Nonostante la presenza di una missione militare internazionale (AMISOM) per favorire la stabilizzazione della nazione, la violenza regna ancora. Un pezzo di Somalia, il Somaliland, si è dichiarato indipendente (ma pochi lo considerano come tale) e un altro, il Puntland, aspira all’autonomia. I vicini osservano con preoccupazione la situazione; con uno, il Kenya, vi sono contrasti per il possesso di un tratto di mare dove si cerca il petrolio. In questa fase i pirati somali, che negli anni passati hanno messo in pericolo i trasporti marittimi nella regione, sono meno attivi, ma potrebbero tornare a farsi sentire.

Somalia: le aree colorate sono controllate dai miliziani di Al Shabaab – Mappa © Criticalthreats.it

La Repubblica Democratica del Congo (RDC), capitale dello stupro

Questa nazione africana costituisce suo malgrado un concentrato di emergenze e di crisi. Al vertice c'è la lotta all’interno della coalizione di governo fra i sostenitori del presidente Felix Tshisekedi e quelli del suo predecessore e alleato (ma anche ex nemico) Joseph Kabila per il controllo degli apparati dello stato. Le opposizioni contestano la legittimità dei risultati delle elezioni presidenziali del 30 dicembre 2018 e organizzano proteste. L'instabilità al vertice impedisce la gestione delle varie crisi, dagli scontri etnici e dalle violenze in corso in diverse zone, all’azione dei gruppi ribelli locali e di origini straniera (fra i quali forse si nascondono i jihadisti dello Stato Islamico). Tutti questi soggetti si contendono il controllo del territorio per estrarre le risorse del sottosuolo e sfruttare le popolazioni. A tirare le fila sono anche paesi vicini come il Ruanda. Vi è poi la criminalità, che raggiunge dimensioni preoccupanti anche nella capitale Kinshasa. A ciò si aggiunge “l’ultima arrivata”, un'epidemia di ebola che miete vittime senza che si riesca a controllarla, anche perché l’azione ndei sanitari è ostacolata dai miliziani che non esitano a distruggere gli ambulatori. Una delle piaghe peggiori rimane però la violenza carnale ai danni delle donne, diffuso al punto che la RDC ha ottenuto qualche anno fa il triste soprannome di “capitale mondiale dello stupro”.

Repubblica Democratica del Congo: focolai del virus “ebola” fino al febbraio 2019 – Mappa © WHO

Afghanistan, la guerra senza fine

È almeno dall’Ottocento che l'Afghanistan è il teatro di scontri fra potenze. La popolazione subisce l’influenza di stati vicini e lontani, che si combattono direttamente o indirettamente per occupare un paese che occupa una postazione strategica di cerniera fra Asia Centrale e Asia Meridionale. L’'impero Russo e quello Inglese, l’URSS e gli USA (con i loro alleati), si sono intromessi nelle vicende afgane per combattere quello che con un’espressione romanzesca è stato definito il Grande Gioco, ossia la lotta per il predominio nella regione in cui da Nord si cercava di arrivare a Sud, verso l’India e le sue ricchezze. Anche i talebani, prodotto in apparenza puramente locale, sono riusciti ad imporsi dopo la fine della guerra combattuta dai sovietici solo perché avevano il supporto dei pakistani, oltre che degli USA in una fase. E Islamabad non ha appoggiato il regime talebano nella sua conquista del potere per simpatie religiose (anche se ciò aver giocato un ruolo) ma perché il Pakistan è impegnato da anni in una lotta con l’India, e l'Afghanistan può essere una base di partenza per attacchi contro il gigante asiatico. Ma “chi semina vento raccoglie tempesta”, e tutte le potenze che si sono intromesse hanno dovuto fare i conti con un popolo fiero, che ha dei leader che sanno fare i propri interessi (ma non quelli della loro nazione, nella maggior parte dei casi) e quindi sono pronti a rivoltarsi contro l’alleato di ieri per mettersi con quello che fino al momento prima era un nemico. Ciò ha fatto sì che la violenza introdotta in Afghanistan in qualche modo tornasse indietro a colpire chi l'aveva provocata. In questo territorio hanno poi trovato rifugio organizzazioni terroristiche (come Al Qaeda) e ha proliferato la coltivazione del papavero da oppio, col traffico di droga che ne segue.

Afghanistan: aree di controllo delle formazioni terroristiche locali – Mappa © Laura Canali per Limes

Siria, il paese dei dilemmi

La Siria, come il vicino Iraq, è diventato un luogo simbolo di guerra civile. Sono anni che conosce scontri e violenze, che hanno danneggiato (e forse distrutto definitivamente) un patrimonio di cultura e un tessuto sociale fatto di convivenza. La violenza non sembra finire. Cosa si può fare? Sostenere un regime (quello di Bashar Al Assad) autoritario, ma che garantiva fino a non molti anni fa un'apparenza di ordine e di sicurezza, nonché di convivenza fra etnie e religioni? O appoggiare dei paesi (quelli occidentali) che dicono di voler portare la libertà e la democrazia ma non esitano ad appoggiare gruppi estremisti, quando non terroristici, solo perché ostili all’avversario. E dei paesi vicini ( e quelli lontani, come la Russia) ci si può fidare? Non hanno esitato a provocare il conflitto solo per cacciare (o difendere) chi era al potere, e non perché amanti della democrazia e del diritto, visto che in alcuni casi la situazione dei diritti umani al loro interno è simile se non peggiore a quella della Siria.

Siria: aree di controllo delle forze governative (rosso) e dei ribelli (verde) – Mappa © AJLabs per Aljazeera

Dal Sacrario di Redipuglia, cinque anni fa Papa Francesco ha messo in guardia dagli “impulsi distorti” della guerra. Oggi, molti dei conflitti sono – parafrasando Francesco – “a pezzi”, per cui risulta arduo trovare soluzioni che possano risolvere scenari compositi e, per certi versi, imprevedibili. Da ciò, l'importanza di un'accorata partecipazione dei Paesi facenti parte delle Nazioni Unite, affinché i tentativi di “crescita”, diritto di tutte le Nazioni, non vengano abortiti da resistenze drammatiche, che interpellano tutti gli Stati, vicini e lontani.