L'ombra inglese sui misteri d'Italia

C'è chi l'ha definita “la perfida Albione“, attribuendole spregiudicatezza politica. Il poco lusinghiero modo di chiamare la Gran Bretagna fu molto in voga in Italia durante il fascismo. E al Ventennio risale il motto “Dio stramaledica gli inglesi“. Evidentemente i rapporti tra Roma e Londra all'epoca del Duce divennero, almeno da un certo punto, tutt'altro che idilliaci. Ma le ruggini risalgono a ben prima dell'avvento del fez nel Belpaese. Ci sarebbe un filo rosso come la croce di San Giorgio, bandiera dell'Inghilterra, che percorre la storia dall'Unità d'Italia fino ai giorni nostri. Un'ombra della Corona costante, non disinteressata, vigerebbe sullo Stivale. Giovanni Fasanella, giornalista, che ha di recente dato alle stampe il libro inchiesta Il puzzle Moro (ed. Chiarelettere, 2018), ha voluto studiarne i contorni più oscuri, che lo hanno portato a scorgere l'artiglio del leone britannico già nel Risorgimento, per assicurarsi uno Stato alleato nel Mediterraneo, che non fosse tuttavia così forte e autonomo da diventare un concorrente. E lo stesso artiglio affonderebbe in alcuni dei misteri irrisolti del nostro Paese. In Terris lo ha intervistato.

Quali sono le ragioni geopolitiche di questa presunta trama britannica contro la sovranità nazionale italiana?
“Presunta? Spieghiamo innanzitutto ai lettori che la 'trama' è raccontata dagli stessi documenti prodotti nell’ultimo secolo e mezzo dai governi inglesi. Documenti un tempo top secret, poi declassificati e depositati negli archivi di Stato di Kew Gardens, vicino Londra, dove tutti possono visionarli. Detto questo, vengo alla sua domanda. Basta aprire una cartina geografica, per capirlo. La Gran Bretagna è un’isola del Nord Europa, i suoi interessi sono sempre stati prevalentemente nel Mediterraneo, in Nord Africa, in Africa, in Medio Oriente. E che cosa c’è sempre stato tra quell’isola e i suoi interessi? L’Italia. Perciò il controllo del nostro Paese era per il Regno Unito una condizione strategica per mantenere il suo status di potenza globale e di grande impero coloniale”.

A quando si può far risalire, una volta unita l’Italia, il primo intervento inglese per nuocere agli interessi del nostro Paese?
“Direi alla campagna di stampa contro il neutralista Giovanni Giolitti per eliminarlo dalla scena politica e indurre il governo italiano prima a rompere l’alleanza con austro-ungheresi e tedeschi e subito dopo a entrare in guerra al fianco di Francia e Gran Bretagna. Le prime prove dell’utilizzo della macchina del fango contro politici italiani scomodi risalgono all’inizio del Novecento, alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale. Il cui esito, nonostante la vittoria militare, per l’Italia fu un disastro al tavolo della pace, a Parigi. Dove, nonostante tutto, il nostro Paese fu umiliato proprio da britannici e francesi, che non mantennero le promesse fatte per indurre Roma a entrare in guerra”.

In una prima fase il regime fascista era tutt’altro che osteggiato da Londra. Poi cosa è successo?
“Da documenti scoperti di recente, emerge che il Benito Mussolini 'giornalista', oltre che dai francesi, era pagato anche dagli inglesi (100 sterline ogni settimana!) per condurre campagne antineutraliste e a favore della guerra al fianco degli anglo-francesi. Gli inglesi lo aiutarono poi a conquistare il potere e a consolidare il suo regime. I suoi rapporti con Londra erano altalenanti, ma con Winston Churchill furono eccellenti almeno sino al 1938. Che cosa spinse poi Mussolini ad allearsi con Hitler, è a mio avviso un tema che merita ulteriori approfondimenti storiografici. Di sicuro, gli inglesi mantennero ottimi rapporti con il 'fascismo buono', la lobby filobritannnica del regime, anche durante la guerra e dopo. Basti pensare che molti esponenti degli apparati del Ventennio e della Repubblica di Salò nel dopoguerra furono riciclati nei servizi d’intelligence britannici”.

È storicamente accertato che Matteotti fu ucciso da squadristi. Lei ritiene ci fosse però anche un coinvolgimento inglese…
“Si è scoperto di recente che Amerigo Dumini, il capo della squadraccia fascista che sequestrò il leader socialista, era legato a doppio filo ad ambienti inglesi. Ci fu sicuramente un ruolo britannico per impedire che il regime fascista, nel 1924 non ancora consolidato, fosse travolto dall’ondata emotiva provocata dall’assassinio di Matteotti. E con altrettanta certezza si può dire che poi, durante la Seconda guerra mondiale, quando agenti britannici andarono a prendere le carte su Matteotti che Dumini conservava nella sua abitazione a Derna, in Libia, quei documenti furono subito portati a Londra e e messi in sicurezza”.

Rimanendo al fascismo, nel suo libro c’è qualche accenno alla possibile “pista inglese” sull’uccisione di Mussolini? È un’ipotesi, quella di un coinvolgimento militare britannico dietro l’omicidio del Duce, che ritiene credibile?
“No, non ne parlo. Ipotesi credibile? Finchè non trovo un qualche documento che provi un coinvolgimento britannico nell’uccisione di Mussolini preferisco non esprimere giudizi avventati”.

L’interesse inglese per il Mediterraneo, per le risorse petrolifere del Medio Oriente si celerebbe anche dietro la morte di Mattei?
“Non c’è alcun dubbio sul fatto che Enrico Mattei, le cui iniziative nelle aree petrolifere di interesse britannico, irritavano profondamente gli inglesi, fosse considerato da loro un 'pericolo mortale', una 'verruca', un’'escrescenza' da rimuovere. Nel 1962, sconsolati, gli inglesi scrissero nei loro documenti che tutti i tentativi di fermarlo fino a quel momento non erano riusciti, e così decisero di 'passare la pratica' alla loro intelligence. Pochi mesi dopo Mattei morì in un incidente aereo provocato, oggi lo sappiamo anche con certezza giudiziaria, da un sabotaggio. Chi furono gli esecutori materiali, importa, ma fino a un certo punto. Il dato più rilevante dal punta di vista storico è che Mattei era considerato un pericolo mortale, un’'escrescenza' da rimuovere, e che gli inglesi gli fecero per anni una guerra spietata per eliminarlo dalla scena”.

E l’uccisione di Aldo Moro? Sul coinvolgimento inglese (ma non solo) ha scritto anche nel recente libro “Il puzzle Moro”…
“Anche Moro, come Mattei, era considerato un pericolo dai britannici. Che, nei primi sei mesi del 1976, giunsero a programmare contro di lui prima un vero e proprio colpo di Stato; e poi, abbandonato il golpe per lo scetticismo di Germania e Usa, un piano B: 'Appoggio a una diversa azione sovversiva'. Certo, furono le Brigate Rosse a rapire Moro. E le Br, benchè inquinate, erano rosse. Ma nessuno riuscì a impedire che un 'sequestro annunciato', come lo definì Carlo Alfredo Moro, fratello di Aldo, fosse comunque portato a termine. E poi nessuno riuscì a liberare Moro. La verità è che le Br e il 'partito armato', che costituiva l’acqua in cui nuotavano i terroristi, furono lasciati indisturbati, liberi di fare tutto quello che volevano, per quasi tre anni, tra il 1976  e il 1978, quando si scatenò in Italia un’ondata di vilolenza politica e di terrorismo senza precedenti. Agli inglesi, e agli altri interessi stranieri che volevano Moro morto, non mancavano certo le quinte colonne italiane in grado di garantire l’'appoggio' a quella 'diversa azione sovversiva'. Diversa, appunto, da un colpo di Stato militare classico, ma identica dal punto di vista dell’effetto prodotto, perché determinò un radicale cambiamento di rotta nella politica interna ed estera italiana di cui subiamo ancora oggi le conseguenze”.

Londra si è sempre assicurata nel corso della storia un nutrito drappello di influenti personaggi italiani pronti a fare i suoi interessi. È così? Qualche esempio di aderenti al “partito inglese”?
“E’ così. In un altro libro, 'Colonia Italia', scritto insieme a Mario Josè Cereghino e pubblicato sempre da Chiarelettere, abbiamo rivelato l’esistenza di un vero e proprio ufficio della propaganda occulta dei Servizi britannici che aveva tentato di condizionare le scelte della politica italiana attraverso l’uso dei mezzi di informazione e non solo. Non voglio fare nomi fuori contesto, non sarebbe corretto, perché molto di loro probabilmente agirono a loro insaputa. Ma in quel libro sono citati con nomi e cognomi centinaia di 'clienti' (e affini) della propaganda occulta britannica, come vengono definiti nei documenti inglesi desecretati e – ripeto – ritrovati negli archivi di Kew Gardens”.

Oggi è ancora così forte il vento d’Oltremanica che spira sull’Italia?
“E’ ancora molto forte, sì. Per certi aspetti lo è ancora di più, visto l’indebolimento politico-culturale e lo sfilacciamento provocato da una litigiosità permanente che ha reso il nostro sistema assai più permeabile di un tempo. Oggi non vedo un De Gasperi, un Mattei o un Moro in grado di costruire un qualche argine alla dilagante influenza straniera. Britannica, ma non solo: nei decenni successivi all’assassinio di Moro, l’Italia è diventata terra di conquista, oggetto degli appetiti degli interessi più svariati”.

Molto materiale utilizzato per il libro che ha scritto insieme a Cereghino “Il golpe inglese” e del “Puzzle Moro” è stato raccolto nell’archivio di Kew Gardens. Non è poi così perfida questa Albione…
“Quella anglosassone è una democrazia molto più antica e trasparente della nostra. In genere, le regole vengono rispettate. Come quella che limita la durata del segreto di Stato. Dato a Cesare quello che è di Cesare, bisogna però aggiungere che qualche deroga c’è anche lì. Documenti importanti sul caso Moro e persino sulla strage di Piazza Fontana sono coperti, oscurati ancora oggi. Per non dire dell’incredibile notizia letta qualche mese fa sul Guardian, uno dei più autorevoli quotidiani britannici. Il governo inglese di recente ha ritirato dagli archivi di Kew Gardens migliaia di fascicoli desecretati. Perché? Si sa solo che riguardavano fatti 'sensibili' del Novecento. E alla richiesta di spiegare che fine abbiano fatto, i governanti inglesi hanno risposto, diciamo così, all’italiana: 'Non si trovano più, sono scomparsi'”.