80 anni fa la rivolta di Varsavia (“powstanie warszawskie”) segna la riscossa della Polonia contro la Wehrmacht. Una “grande amicizia”, quella tra Italia e Polonia, “consacrata a Montecassino”, nel corso della sanguinosa battaglia della Seconda guerra mondiale che, nel 1944 (si celebreranno gli 80 anni), vide impegnati i valorosi soldati polacchi ricordati anche dal presidente Andrzej Duda. Il capo dello Stato Sergio Mattarella parte da questo riferimento storico per tracciare i punti fermi di una relazione bilaterale importante. Incontrando la comunità italiana residente in Polonia, ha riallacciato i fili della memoria. La Resistenza polacca alla tirannide nazista è stata anche una questione culturale. È l’anima polacca che cerca di sopravvivere disperatamente. Cracovia ribolle di iniziative clandestine. Si fa notare il Teatro Rapsodico, che mette in scena recital a sfondo patriottico in case private, chiese e scuole. L’ “attor giovane” del Teatro Rapsodico è Karol Wojtyla. La guerra lo ha travolto appena ventenne: fidanzato, iscritto alla facoltà di filosofia di Cracovia, si avvicina istintivamente alla Resistenza cattolica. Vive con il padre malato in uno scantinato. Dopo che i tedeschi hanno sospeso i corsi a cui è iscritto, per evitare la deportazione di giorno lavora in una miniera, di notte studia. Legge le opere di san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila, s’immagina drammaturgo. Teatro e filosofia nel giovane Wojtyla diventano un tutt’uno.
Scrive in quel periodo Karol Wojyla: “l’azione teatrale vive rallentata e l’uomo si libera dall’eccesso importuno del gesto, dall’attivismo che soffoca l’essenza interiore e spirituale dell’uomo. È la parola che impegna a pensare”. Recitare è già in sé un atto di resistenza ai nazisti. L’attore August Kowalczyk, salvo per miracolo, racconta: “Il 28 maggio 1942 ero nella squadra dei condannati a morte. Mi avevano scoperto in contatto con un’organizzazione collegata all’Armata Nazionale (l’Armia Krajowa, il più importante movimento di resistenza polacco). Stavo in una cella completamente buia, tutto solo. Attraverso le pareti ho sentito il giorno prima la fucilazione in massa di centosessantotto esponenti dell’élite artistica e intellettuale di Cracovia, trucidati perché i partigiani avevano ucciso un ufficiale tedesco. Ricordo che contavo ogni sparo, fino al cinquantesimo, quando ho sentito uno gridare: ‘Viva la Polonia!’ Allora, preso dal panico e dall’emozione, ho smesso, sicuro che sarebbero venuti a fucilare pure me”.
Ma il Teatro Rapsodico è molto di più. I suoi attori, compreso Karol Wojtyla, fanno anche opera di intelligence. Sono un pezzo del controspionaggio allestito dalla Resistenza. La loro organizzazione si chiama Unia, unità. L’ha raccontato per primo un vecchio amico del Papa, il filologo Tadeusz Ulewicz, professore emerito dell’università di Cracovia. Karol spaccava già pietre per quattordici ore al giorno, eppure collaborò subito con noi nell’organizzare corsi di istruzione clandestini. I nazisti avevano chiuso tutte le scuole a eccezione delle elementari. I corsi di istruzione superiore si tenevano negli appartamenti in maniera segreta, Karol per un anno riuscì a insegnare filologia e poi era molto attivo nel far circolare le informazioni. Come me, faceva parte della Sodalitas Mariana e le poche radio sfuggite ai tedeschi funzionavano nei conventi. “Per due o tre anni ci vedevamo a date fisse per scambiarci informazioni, in fondo si può dire che nella Resistenza io ero il suo capo”, spiega Ulewicz.
Conferma padre Adam Boniecki, sacerdote polacco, amico di vecchia data del futuro Giovanni Paolo II: “Wojtyla faceva parte dell’Unia, una cellula segreta della Resistenza polacca che affiancava il ramo militare. Si occupava di informazione e cultura appoggiandosi al Teatro Rapsodico di Wadowice. Wojtyla fece giuramento di
fedeltà e segretezza a questa organizzazione della Resistenza e per mantenere fede al suo giuramento mentì anche quando si iscrisse all’università. Gli fecero compilare
un questionario e alla domanda se facesse parte di un’organizzazione clandestina scrisse ‘no’. Molti membri dell’Unia vennero deportati appena scoperti. Vive sul filo del rasoio, il giovane Wojtyla. Un giorno del 1941, al ritorno nel seminterrato, trova il padre senza vita. È con un’amica, Maria. La abbraccia e piange: “Non sono stato accanto al letto di morte di mia madre, né di mio fratello, né di mio padre”. Da un anno lavora in una cava che fornisce sodio alla fabbrica chimica Solvay, dove carica pesanti pietre sui carrelli a rotaia. Ogni giorno percorre a piedi sette chilometri all’andata e sette al ritorno. Dopo la morte del padre ottiene il trasferimento in fabbrica, dove il lavoro però non è meno pesante. Con un bilanciere sulle spalle, trasporta secchi colmi di materiale fino a un “bollitore” in cima a una rampa di scale.
Continua intanto a frequentare i suoi amici del teatro. Nel dicembre del 1941 la Gestapo arresta duecento persone nel caffè dove in genere i giovani si incontrano. La maggior parte finisce ad Auschwitz o fucilata. “Anche Karol avrebbe potuto fare quella fine. Deve solo ringraziare la fortuna”,ha commentato un amico, Wojciech Zukrowski. Poco dopo, all’inizio del 1942, Wojtyla decide di farsi prete, come spiegherà in un discorso al clero nel 1995. “La vocazione sacerdotale maturò in me proprio in quella difficile situazione– rievoca-. Maturò tra le sofferenze della mia nazione, maturò nel lavoro fisico tra gli operai, maturò anche grazie alla direzione spirituale di vari sacerdoti, specialmente del mio confessore”. Racconta ancora Ulewicz: “Si era verso la fine della guerra, quando ormai era chiaro che i sovietici ci avrebbero invaso. Un giorno Karol mi disse: ‘Tadek, ti devo confessare una cosa. Io non sono fatto per la filologia, ma ho deciso di studiare la teologia’. Poco dopo era seminarista, ancora una volta clandestino, in una sorta di istituto messo su dall’allora vescovo di Cracovia Adam Sapieha. Una trentina di giovani studiavano in un convento senza farsi notare. Io avevo uno zio sacerdote che un giorno, parlando col vescovo, vide entrare una sorta di elettricista; c’era un interruttore guasto, il giovane tecnico lo riparò e senza una parola uscì dalla stanza. Sapieha disse: ‘Vedi quel giovane? È un seminarista, farà molta strada’”.
Poiché nessun seminario è autorizzato, chi frequenta quello clandestino rischia la vita. Karol conduce per due anni una doppia esistenza, sfiorando la tragedia a ogni passo. Il 29 febbraio 1944 un camion militare tedesco lo investe. Lo trovano steso sull’asfalto, vivo, ma in coma. Per fortuna si riprende. Il 6 agosto i tedeschi setacciano il suo quartiere con un rastrellamento senza precedenti. Nel suo palazzo perlustrano i vari piani, ma tralasciano il seminterrato. È così che Karol si salva. Con un po’ di buona sorte e una grande fede. Da allora e per sempre è devoto al suo Angelo custode, in cui crede senza tentennamenti: “Il mio Angelo custode sa che cosa sto facendo. La mia fiducia in lui, nella sua presenza protettrice, si va in me costantemente approfondendo”, scriverà tanti anni dopo in “Alzatevi, andiamo“.
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