Il Parlamento europeo ha decretato che, il 2022, è l’anno della gioventù. In particolare, tra gli obiettivi c’è quello di ridare ai giovani nuova speranza, forza e fiducia nel futuro post-pandemia.
In Europa e in Italia, la pandemia, ha aggravato la situazione occupazionale e l’inclusione sociale dei giovani. Nel nostro Paese, ad esempio, secondo le ultime rilevazioni, il 28% dei giovani sotto 24 anni non ha un lavoro, siamo al terzultimo posto in Europa, dietro Spagna e Grecia, circa il doppio della media europea, malgrado alcuni recenti progressi. Oltre a ciò, il numero dei Neet, ossia dei giovani tra i 15 e 29 anni che non fanno né formazione né hanno una occupazione, è di 2,1 milioni, ossia il 23% della popolazione in tale fascia d’età, un valore più alto di dieci punti rispetto alla media europea.
In questo frangente, il ruolo del welfare è determinante. In particolare, attraverso varie progettualità ad alto contenuto tecnologico e innovativo, lo stesso sta contribuendo a lenire gli effetti della pandemia e ad includere maggiormente i giovani all’interno delle comunità, per far sì che essi possano essere riconosciuti ed assumere un ruolo all’interno delle stesse. Interris.it, in merito a questo tema, ha intervistato il dott. Giovanni Teneggi, responsabile nazionale Cooperative di Comunità di Confooperative nonché direttore dell’ente a Reggio Emilia.
Quali sono le nuove sfide che attendono il welfare in questa nuova fase connotata dalla pandemia e dalla guerra alle porte dell’Europa?
“La sfida più decisiva è coabitare la solitudine del mondo e la paura della gente. Viviamo un’epoca di grande paura con una grande opportunità di servizi. La tecnologia, il digitale e il globale hanno aumentato tantissimo la possibilità di accedere a servizi e opportunità, ma tutte su base individuale. La mancanza appunto di poterlo fare in spazi prossimi, considerabili propri e abitabili, dà alle persone un’incertezza e una mancanza molto potente. Quindi, ricostruire spazi di prossimità per le persone, anche dentro alle possibilità che il globale ci consente, è la sfida che attende il welfare”.
Cosa possono fare le comunità per venire incontro a questa nuova sfida di prossimità?
“Ciò che possono fare le comunità ed è urgente che lo facciano, paradossalmente è mettersi in discussione. Noi perlopiù, quando individuiamo una comunità, la possiamo riconoscere per tratti identitari di appartenenza molto spesso chiusi, di autoreferenza, ossia che “stanno sui talloni” e vivono la propria storia come spazio di rifugio, cercando conservazione e conferme. Dove abbiamo questo patrimonio straordinario nonché capitale sociale, è importante che lo stesso sia messo a disposizione per trasformarsi ed essere abitato da nuove funzioni, insegne, codici e nuovi momenti di connessione con il resto del mondo. Le comunità sono abituate a pensare che la loro continuità è nella permanenza in ciò che hanno ed invece sarà nell’attrattiva di ciò che le sta cercando”.
Qual è il valore rivestito dai giovani in questo welfare innovativo?
“I giovani sono fondamentali. Troppo spesso diciamo che sono la generazione del futuro. Non è vero, sono la generazione del presente. Le comunità devono mettersi in discussione anche rispetto ai loro processi decisionali, rendendo i giovani dai 16 ai 25 anni classe dirigente. Chiaro che non sarà una classe con il portafoglio, i ruoli e le competenze capaci di rivestire i ruoli decisionali. Intendo classe dirigente, nel senso di partecipare ai processi decisionali dei luoghi, delle comunità e delle istituzioni, interferendo sugli stessi e potendo partecipare, quindi essendo classe dirigente di indirizzo e orientamento. Non possiamo costruire, disegnare e nemmeno vedere il futuro, se non con chi il futuro già lo ha in mano”.
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