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Come curare chi non può guarire. L’intervista al dottor Andrea Magnoni

“Guarire se possibile, aver cura sempre”, diceva san Giovanni Paolo II. La popolazione invecchia, le fragilità aumentano e i legami non restano sempre solidi, per cui nel futuro, a partire da oggi, acquisterà sempre più importanza quel fattore umano che calma e dà conforto nei momenti della vita dove la vulnerabilità raggiunge il suo picco. A chi viene comunicata una prognosi infausta o deve convivere con una malattia cronica la condizione di “inguaribile” può risultare un ulteriore peso, interiore, morale, che lo affligge, oltre a quello del suo corpo. Ma “inguaribile non è sinonimo di ‘incurabile’”, recita la lettera “Samaritanus Bonus” della Congregazione per la Dottrina della Fede, invitando ad allargare il concetto di cura affinché includa tutte le dimensioni della persona, quella fisica, quella psicologica, quella sociale, quella relazionale, quella spirituale. “Si prova ad affrontare queste quattro cose insieme, dobbiamo comprendere che tutti dipendiamo dalle nostre relazioni”, dice a Interris.it Andrea Magnoni, neurologo e direttore sanitario dell’hospice “San Pietro” di Monza. Una dichiarazione che echeggia direttamente il tema scelto da papa Francesco per l’ultima Giornata mondiale del malato, “curare il malato curando le relazioni” e induce alla riflessione in occasione della Giornata mondiale della salute che cade domani, il 7 aprile.

Un luogo consono

Nata dieci anni fa all’interno della rete dei servizi della Cooperativa La Meridiana, la struttura ospita chi è affetto da malattia evolutiva a prognosi infausta, con un’aspettativa di vita prevedibilmente inferiore ai tre mesi, o chi accusa sintomi fisici che non permettono, anche solo in via temporanea, il trattamento domiciliare. Per far sentire qualcuno accolto serve trasmettergli quel calore umano che gli restituisca un senso di familiarità. “In un hospice si curano non solo le malattie, anche terminali, ma pure i disagi psicologici-esistenziali”, continua il medico, “si cerca di creare un posto molto vitale, in un luogo anche architettonicamente consono e diverso da un reparto di ospedale, che coinvolga anche chi viene nell’ultima fase della sua vita. In un ambiente così migliora anche l’umore degli ospiti”. “Il personale è sempre pronto per i pazienti, prova a intervenire in anticipo sulle loro richieste”, aggiunge Magnoni, “un po’ come fossero i loro ‘angeli custodi’”.

Disponibilità

Curare chi non può guarire significa lavorare per garantirgli una buona qualità della vita pur in un frangente così difficile e provante, rispetto alla vita a cui tutti siamo abituati. Non solo in termini tecnici, ma in un certo senso “farsi prossimi”. “In una persona ci sono il corpo, la psiche, la relazionalità, la spiritualità, si prova ad affrontare queste quattro cose insieme. Dobbiamo comprendere che tutti dipendiamo dalle nostre relazioni”, afferma Magnoni. “Chi cura, prima di essere competente, tecnico, deve essere facilmente accessibile per il paziente, esserci prima della sua richiesta”, prosegue, “ricordo che in un libro si sosteneva che la malattia rende dipendenti e chiedere aiuto può costare fatica, per cui bisogna essere sempre disponibili”.

Sincronia emotiva

Come recita la battuta di un film di trent’anni fa, “le parole sono importanti”. Nel rapporto medico-paziente ancora di più. “Le parole hanno sempre significato emotivo particolare”, dice il dottore, spiegando che “quando il malato chiede che cos’ha, il medico non deve rispondergli in ‘medichese’, bensì cercare un terreno comune su cui camminare insieme, con discrezione e attenzione”. Il pensiero di affrontare una malattia e la terapia, di quello che può accadere, può spaventare. “Ritengo che una pianificazione condivisa delle cure sia importante”, continua, “quando il paziente entra in ospedale o nella struttura, chi se ne prenderà cura deve spiegargli quali saranno i passi successivi e anche concordarli insieme”.  Sapere prestare ascolto all’interiorità propria e a quella altrui ed essere in grado di orientarla è un aspetto non secondario nel percorso dell’avere cura. “Quando ci sono responsabilità da assumersi, le si può affrontare in squadra. Se c’è da prendere una decisione di fronte a pratiche anche pesanti, come la sedazione palliativa, tutti i componenti dell’equipe multidisciplinare devono giungere alla conclusione insieme”, racconta il direttore sanitario”. “La chiamo ‘sincronia emotiva’, per affrontare le questioni eticamente ed emotivamente forti”, conclude.

Lorenzo Cipolla

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