Intervento

Tra l’io e il tu: le realtà vocazionali maschili e femminili

Quando ho occasione di incontrare gruppi maschili e femminili di sacerdoti e consacrati/e il divario culturale tra loro è piuttosto innegabile. Non è certo un fatto di intelligenza o di impegno volontaristico (chi si applica di più e chi di meno), quanto di opportunità formative e di tempi che vengono garantiti – in misura diversa – perché sia possibile leggere, studiare, approfondire. I religiosi di solito conoscono bene più di una lingua, hanno gradi accademici vari, cioè non solo una formazione di base, ma anche master e specializzazioni di livello superiore. Le religiose, invece, non di rado (mi si perdoni questa semplificazione estrema, certamente non rappresentativa delle specifiche realtà), hanno un retroterra diverso: gli impegni domestici ed apostolici riducono il loro tempo a disposizione per approfondire il carisma o comunque per dedicarsi allo studio.

Non è il “titolo” a fare la differenza, questo è chiaro. Non è neppure questione di collezionare specializzazioni e passare gli anni ad accumulare esami e lauree o dottorati (rischio da cui la vita religiosa non è esente oggi), ma di offrire la possibilità di aprire la mente e formarsi una coscienza adulta e quanto più possibile libera. Un recente articolo pubblicato su La Civiltà Cattolica da una penna maschile fotografa la situazione attuale del mondo vocazionale femminile in termini molto chiari ma anche dolorosi, che condivido pienamente, purtroppo. Qui ne faccio eco.

A fronte di molti Istituti femminili sensibili al discernimento, che quindi prevedono un adeguato accompagnamento prima dell’ingresso in comunità – attenzione quanto mai necessaria, nel nostro tempo in modo particolare – e un successivo percorso spirituale, ma anche di formazione umana-psicologica, rimangono troppe realtà comunitarie che invece sono carenti di questa accuratezza. Papa Francesco qualche anno fa in termini molto chiari ha denunciato la “tratta delle novizie”, cioè il reclutamento di giovani provenienti da situazioni geografiche difficili, per contrastare il calo numerico e la chiusura di case religiose.

L’evidente conseguenza è che le comunità finiscono per accogliere persone che poi non vengono aiutate a valutare seriamente la propria vocazione (chiamata o soluzione di comodo?), e che, successivamente, non costituiscono una forza propulsiva per la realtà carismatica. Anche in una più recente intervista (La forza della vocazione. Conversazione con Fernando Prado, EDB 2018) il nostro Pontefice sottolinea l’attenzione a non ammettere giovani senza una vocazione sincera che cercano un rifugio nella struttura vocazionale, perché questo crea un’ipoteca sull’istituto e sul ministero. I “problemi abbastanza seri” (ib.) che taluno pensa di risolvere nei cammini di sequela Christi si amplificano nel tempo, non si estinguono di certo.

Allora cosa fare? Credo sia fondamentale che il desiderio, lo slancio iniziale di un/una giovane incontri la competenza di chi sappia valutare la consistenza della richiesta di iniziare un percorso in seminario o in comunità. E fin qui siamo tutti d’accordo. Ma andando oltre, una riflessione seria dovrebbe spingersi verso il ripensamento della vita comunitaria: quale è il senso dell’autorità, ad esempio? È chiaro che, sul piano sociale e culturale, c’è stato un cambio nella comprensione e nel vissuto gerarchico.

O ancora: come favorire la crescita adulta delle sorelle di comunità, evitando di stimolare i processi di infantilizzazione, per certi versi “comodi”, ma che addormentano il carisma togliendo ad esso vitalità? Come è da intendersi la dipendenza che non può assorbire qualunque espressione autonoma della persona? Il Manuale Diagnostico di ultima generazione rileva – per l’adulto “ben funzionante” – la necessità di un equilibrio tra l’eccessiva indipendenza e una iper-identificazione con l’altro, che vuol dire avere un debole senso di autonomia.

Se il mondo maschile rischia un eccesso di “io”, quello femminile ancora oggi soffre del pericolo di un eccesso di “tu” o di “noi”, inteso come rinuncia ad una propria individualità. Nel mondo religioso le donne che esprimono una personalità più forte possono essere considerate mancanti di senso comune. Ciò che è pacifico nell’uomo (ad esempio fare sport), lo è meno nella donna (per la quale è un lusso dedicare del tempo al benessere fisico). Esprimere un disaccordo è possibile col formatore, ma diventa assai meno facile nelle realtà femminili.

Nessun giudizio, né analisi pessimistica. Anzi, il processo di riflessione e aggiornamento è in corso e va apprezzato e incoraggiato perché le realtà vocazionali hanno tanto da dire al mondo, a noi laici, che guardiamo loro come a laboratori di umanità e di fede. Ma per mantenere viva la profezia è necessario osservare lucidamente ciò che ancora può essere migliorato perché donne giovani e meno giovani che vogliono seguire il Signore possano raggiungere una piena espansione spirituale e umana.

Chiara D'Urbano

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