Sanità lombarda, perché la politica c’entra poco

Riccardo Ricciardi, deputato grillino della profonda provincia toscana, ha avuto il suo momento di gloria, criticando la gestione della pandemia in Lombardia; in sostanza sgridando nuora (Attilio Fontana) perché suocera (Matteo Salvini) intenda. Ma non si è fermato a prendersela solo con Lega (suscitando una reazione forsennata dei deputati leghisti ); ha voluto risalire al modello della sanità lombarda, chiamando in causa (dagli arresti domiciliari) l’ex presidente Roberto Formigoni, il quale avrebbe favorito la sanità privata, costruendo un modello che lasciava ai cittadini la libertà di scelta tra le strutture pubbliche e quelle private (tra cui vi sono delle vere e proprie eccellenze, come del resto nel settore pubblico).

Ci sta che un movimento populista come il M5S, per bocca di un suo esponente tra i più radicali, alimenti l’onda montante dello statalismo per spiegare la causa della tragedia che ha colpito la Lombardia. E che lo faccia con il cinismo della lotta politica dei nostri tempi, senza concedere un attimo di silenzio davanti ai tanti concittadini periti in quella impari battaglia. Il Parlamento – anche in tempi più civili di questo – ha conosciuto molti episodi di scontri dialettici che sono presto sboccati in risse, più o meno controllate dai commessi (oggi si chiamano più prosaicamente assistenti). Ma ci sono stati anche momenti di unità e di comune solidarietà davanti ad episodi che scuotevano fin dalle fondamenta lo Stato (proprio ieri si è ricordata la strage di Capaci in cui rimasero vittime Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta; pochi giorni or sono, in piena quarantena, si è ricordata l’uccisione di Aldo Moro (dopo 55 giorni di prigionia nel ‘’carcere’’ delle BR).

Ma qualche puntino sulle ‘’i’’ va messo, senza indulgere a speculazioni politiche e mantenendo sempre quei sentimenti di pietas che le morti degli innocenti impongono. E’ troppo comodo incolpare un sistema come se fosse di per sé inadeguato ad affrontare le crisi. In Lombardia ci sono stati degli errori di gestione, magari comprensibili nel contesto drammatico e sconosciuto in cui sono stati commessi. La politica c’entra poco. In Veneto, la stessa maggioranza che governa la Lombardia è stata d’esempio per tutta l’Europa. Tanto che il governatore Luca Zaia viaggia in cima agli scudi e si appresta a stravincere le elezioni, magari soltanto con una ‘’sua’’ lista. Non si dimentichi che il Veneto ha affrontato anni fa, con le proprie forze, le conseguenze di un nubifragio che distrusse gran parte del patrimonio boschivo.

Lo stesso apprezzamento è stato rivolto al Friuli VG, una regione governata anch’essa da un giovane esponente della Lega, Massimiliano Fedriga. In Lombardia ai tempi del “celeste’’ Formigoni e anche in quelli di Roberto Maroni l’emergenza sarebbe stata gestita sicuramente meglio. Invece, adesso, sono stati commessi errori che magari sono serviti a non ripeterli altrove: lo svolgimento a Milano della partita di Champions dell’Atalanta; la distribuzione dei contagiati della prima zona rossa, nei comuni intorno a Codogno, in altri nosocomi, sparsi nella regione; l’uso delle Rsa come ricovero degli ammalati (con relativo contagio dei ricoverati) e soprattutto la mancata chiusura di Bergamo e Brescia con un rimpallo di responsabilità nei confronti dello Stato che non regge, perché nelle emergenze non decide chi dirige ma dirige chi decide a prescindere da quanto è scritto nelle leggi.

Nella gestione della pandemia in Lombardia anche le strutture private non si sono tirate indietro ma hanno compiuto il loro dovere, come è stato loro riconosciuto. Al di là delle polemiche di queste settimane di relativa apertura, ad avviso di chi scrive, la principale causa di tanti morti è dipesa dall’assenza del filtro della medicina del territorio (medici di base e poliambulatori) nella filiera della lotta al contagio. E’ stata una scelta netta che ha caricato tutti i contagiati sulle strutture ospedaliere, mentre gli studi medici e i presidi territoriali erano chiusi. Certo, il medico di base non aveva le conoscenze e i mezzi per contrastare un’epidemia sconosciuta, tanto più che i malati ricorrevano alla ospedalizzazione (senza passare neppure dal Pronto Soccorso) quando le loro condizioni erano ormai disperate. Nelle prime giornate di epidemia conclamata, i contagiati andavano in pratica a morire all’ospedale.