A volte un osservatore attento, osservando le azioni e le dichiarazioni dei vertici della BCE, arriva a chiedersi “ma dov’è che vogliano arrivare?”. Questa è la domanda reale a fronte della goffa e erratica politica monetaria degli ultimi mesi perché non si capisce quale sia la reale strategia di Christine Lagarde e del board della Banca Centrale per fronteggiare un’inflazione – non inflazione. Nessuno può negare che tra la fine lo scorso anno i prezzi al consumo siano saliti in maniera repentina, spinti dalle aspettative di crescita, prima, e dalla crisi ucraina, poi, che hanno fatto impennare i costi energetici che, poi, si sono riversati su tutti i segmenti merceologici. Improvvisamente a Francoforte hanno notato un’oscillazione molto importante in questo settore e, ricordandosi che l’obiettivo principale della BCE è quello di mantenere la stabilità dei prezzi, definita come un tasso di inflazione vicino al 2% nel medio termine, hanno deciso di accelerare quella stretta monetaria che già era iniziata per riportare la politica monetaria verso una situazione di “normalità” con la ripresa post-pandemica.
Il problema, come già si era detto in altri articoli, è che il caro prezzi non era dovuto da inflazione, cioè dalla perdita di valore del denaro per una maggiore offerta rispetto alla domanda, ma a fattori esogeni, precisamente da movimenti di mercato sui listini, che non avrebbero potuto essere controllati dalla banca neppure tagliando i programmi di rifinanziamento o innalzando i tassi.
Oddio, quest’ultima azione avrebbe dovuto esser fatta comunque, in risposta all’azione della FED per bloccare lo shock inflazionistico, questo sì reale spinto soprattutto dalla politica espansiva del governo Biden, per difendere il cambio ma non in maniera così dogmatica come la Governatrice e gli alti membri del Comitato Esecutivo continuano a perseguire, fosse anche solo con le dichiarazioni. Il problema vero che si pone, oggi, è però che non ci sia un obiettivo strategico né una reale analisi di fondo nell’azione della BCE a parte la dichiarazione di intenti del riportare l’inflazione al 2% anche a costo di provocare una recessione come sta già avvenendo in Germania.
L’ossessione per l’inflazione, poi, ha portato anche a dichiarazione improvvide da parte della stessa Lagarde dalla richiesta di non concedere aumenti salariali, come se la cosa avvenga per decreto, o di tagliare gli aiuti per il contenimento dei costi energetici alle famiglie perché la situazione dei prezzi si è normalizzata. Un attimo… si è normalizzata? Ma non si diceva che l’inflazione era ancora troppo alta?
In verità, ora, ci si trova nella “coda lunga” degli aumenti dei prezzi avvenuta nella seconda metà del 2022 ma che aveva iniziato a rientrare già nei primi mesi del 2023; oggi i prezzi delle fonti energetiche sono tornati addirittura a livello pre-pandemico, almeno per il gas ma anche il petrolio è in continua discesa, così come i prezzi della logistica sono crollati e il sistema sta andando verso una normalizzazione ma questo all’Eurotower sembra che non si veda.
Dicevamo che la Germania sia entrata in recessione, infatti Destatis ha appena certificato il secondo trimestre di calo del PIL (per un complessivo -1,7% sullo stesso periodo dello scorso anno) decretando l’ingresso in uno stato di recessione, quantomeno “tecnica”. Che la politica monetaria restrittiva della Banca Centrale abbia avuto un effetto negativo sull’economia tedesca è piuttosto evidente anche perché le tempistiche sono importanti per valutare le correlazioni e la contrazione ha coinciso proprio con il brusco cambio di rotta della politica monetaria.
L’aumento dei tassi di interesse ha reso, infatti, più costoso il finanziamento per le imprese e le famiglie, riducendo la domanda interna e il consumo privato; tutto questo ha apprezzato, inoltre, l’euro rispetto ad altre valute, penalizzando le esportazioni tedesche, che rappresentano il vero motore dell’economia del paese.
La stretta creditizia ha avuto, poi, un effetto di contagio sulle altre economie europee che hanno subito una contrazione del PIL nel primo trimestre del 2023 e altri stati stanno cominciando a segnare un tasso di crescita negativo YoY cosa che potrebbe trasformarsi in una nuova crisi bancaria con la crescita degli NPE se l’innalzamento dei tassi rendesse insostenibile il peso dei finanziamenti in essere e la cosa non sarebbe di facile soluzione.
Già oggi la domanda di finanziamenti ha rallentato parecchio, fino quasi a fermarsi, cosa che avrà grosse ripercussioni su settori strategici quali costruzioni e automotive anche in funzione delle politiche “verdi” che l’UE vorrebbe imporre e che, di fatto, si trasformano in nuovi e corposi costi per famiglie e imprese che vedranno sempre più assottigliata la capacità di spesa e di investimento.
Anche se, per il momento, sembrerebbe che questo non sia un problema dell’Italia che sta guidando la ripresa economica europea: stando agli ultimi dati la crescita si sta indirizzando oltre l’1% congiunturale facendo meglio di tutti i partner a dispetto anche delle minacce di downgrade nei rating arrivate solo qualche settimana fa nonostante i conti della finanza pubblica non siano, poi, così disastrosi, come faceva notare giustamente il prof. Luigi Campiglio dell’Università Cattolica di Milano in una recente intervista su Il Sussidiario.net.
Oggi è possibile, quindi, dire che il vero problema dell’Europa sia la visione assolutistica e manichea della Banca Centrale che si pone come un freno allo sviluppo e alla crescita di una zona che ancora faticava a riprendersi dopo una crisi pandemica ed era già stata fiaccata dallo scoppio di una guerra attaccata ai propri confini, proprio perché condotta senza un vero e proprio metodo e alcun obiettivo neanche di medio termine, a meno che questo non sia quello di frenare aspettative e investimenti.
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