La Siria non ha più tempo

Una strage orribile, l’ennesima, che ha visto tra le vittime innocenti anche una decina di bambini. La guerra infinita iniziata ormai sei anni fa in Siria ha fatto registrare ieri l’ennesimo capitolo di sangue, dolore e morte con il bombardamento di civili nella provincia di Idlib. Decine di persone sono rimaste uccise in seguito ai raid con gas tossici. Il consueto balletto di accuse e smentite sulle responsabilità è un film già visto. Purtroppo, a pagare il prezzo più alto, ancora una volta, sono i civili, in particolare i profughi. L’Onu calcola che nella provincia di Idlib ci siano almeno 900.000 sfollati. E il timore è che per loro si ripeta il dramma già vissuto ad Aleppo.

La città capoluogo del distretto omonimo, nella zona nord-occidentale della Siria, non lontana dal confine con la Turchia, è infatti in mano ai ribelli ed è diventata il rifugio dei miliziani qaedisti di Hayat Tahrir al Sham (gruppo in cui sono confluiti anche quelli di Fatah al Sham, ex al Nusra) che hanno abbandonato Aleppo dopo la liberazione della città a dicembre. Ed è su questa zona che probabilmente si concentreranno nelle prossime settimane gli attacchi delle forze governative sostenute dai russi, in accordo con le milizie curde.

Il cambio di strategia politica dell’amministrazione Trump potrebbe risultare decisivo per le sorti della guerra. Il nuovo presidente americano, contrariamente a Obama, non considera Assad il nemico principale perché il suo obiettivo è abbattere l’Isis. Quando nel 2013 ci furono le prime notizie di un attacco chimico, Obama minacciò di usare la potenza militare Usa contro il regime di Damasco. L’appoggio della Russia allo storico alleato in Medio Oriente e la pressione esercitata dal Papa con la grande veglia del 7 settembre per la pace nell’”amata Siria” fermarono le armi americane. Ora Trump, senza dimenticare i suoi buoni rapporti con Putin, vede in Assad un possibile alleato nella lotta ai miliziani di al Baghdadi.

Ma al di là della difficile partita militare e politica, in uno scacchiere complicato in cui le alleanze si fanno e si smontano in poco tempo, è intollerabile l’indifferenza a cui ci stiamo abituando nei confronti del dramma umanitario che sta vivendo la popolazione, stremata da sei anni di una guerra condotta senza esclusione di colpi. Civili inermi stretti nella morsa dei feroci tagliagole dell’Isis, dei ribelli e dell’esercito regolare che vuole riconquistare ad ogni costo la supremazia.

Le tremende immagini della strage di ieri toccano la coscienza di tutti. Che differenza c’è rispetto agli attentati terroristici di San Pietroburgo, di Londra, di Istanbul o di Parigi? I morti sono morti. Non ci si può limitare a chiedere una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, come ha fatto la Francia, o a lanciare accuse più o meno fondate. E’ ora di agire concretamente. Se non per motivi umanitari, quanto meno per puro interesse: fermare la guerra in Siria significa, per l’Europa, arrestare o almeno rallentare significativamente il flusso ininterrotto di migranti. Per questo è necessario non solo ogni sforzo per evitare che si fermino i negoziati di pace ma che le trattative raggiungano un risultato nel più breve tempo possibile: la gente, in Siria, vuole tornare a vivere e di tempo non ne ha più.