Giornata del sollievo: i tre concetti cardine sui cui accendere i riflettori

sollievo, mani
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Il 28 maggio si celebra la 22esima edizione della Giornata Nazionale del Sollievo; la Fondazione Nazionale Gigi Ghirotti è uno dei tre enti promotori della Giornata, insieme al Ministero della Salute e alla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome.

Istituita nel 2001 con direttiva del presidente del Consiglio dei Ministri, per “promuovere e testimoniare, attraverso idonea informazione e tramite iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, la cultura del sollievo dalla sofferenza fisica e morale in favore di tutti coloro che stanno ultimando il loro percorso vitale, non potendo giovarsi di cure destinate alla guarigione”, l’edizione di quest’anno vuole porre l’accento e riaccendere i riflettori su tre concetti cardine: cure palliative, terapia del dolore e umanizzazione.

Certamente considerevoli sono stati negli ultimi decenni i successi ottenuti, nell’ambito della medicina, riguardo le terapie palliative normate dalla legge n. 38 2010 “Il diritto di accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”.

Nello specifico le cure palliative in hospice sono un servizio previsto dai LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) che “garantiscono il complesso integrato di accertamenti diagnostici, prestazioni mediche specialistiche, infermieristiche, riabilitative, psicologiche, l’assistenza farmaceutica, la somministrazione di preparati di nutrizione artificiale, le prestazioni sociali, tutelari e alberghiere e il sostegno spirituale” (Min. della Salute).

In realtà in Italia attualmente gli Hospice sono poco più di 300 con circa 800 medici palliativisti, numero insufficiente per far fronte ai bisogni del Paese; dall’autunno 2022 sono state aperte le prime scuole di specializzazione nelle cure palliative, è del tutto verosimile pertanto che nel prossimo decennio si specializzeranno circa 2.500 operatori sanitari in tale disciplina, diminuendo ovviamente in tal modo le eventuali richieste di suicidio assistito o eutanasiche.

Richiamare altresì, nella giornata nazionale del sollievo, l’attenzione “sull’umanizzazione delle cure”, su tutto ciò che non sia quindi risolvibile tecnologicamente pone viceversa in essere una seria riflessione sui bisogni di ascolto e comprensione del sofferente.

Del resto a tale proposito già nella parabola del Buon Samaritano del Vangelo di Giovanni si possono scorgere argomenti che costituiscono la tematica di questa giornata: rimedi terapeutici palliativi: “gli fasciò le ferite versandovi olio e vino” e di umanizzazione delle cure:gli si fece vicino, n’ebbe compassione, si prese cura di lui”.

Come scriveva anche Kierkegaard infatti, “se davvero si vuole aiutare qualcuno, bisogna prima scoprire dove si trova. Questo è il segreto dell’assistenza. Se non si può scoprirlo, è solo un’illusione credere di poter aiutare un altro essere umano”; il punto cruciale resta la persona umana del malato, i suoi bisogni, le sue peculiarità esistenziali, i suoi diritti.

Nascita, vita, dolore, sofferenza, malattia, vecchiaia e morte fanno parte della condizione umana a conferma dell’eterno mistero del dolore che pone al sofferente la domanda: perché, perché proprio a me? E l’interrogarsi prosegue sul senso della sofferenza e su quale ne sia il significato.

A tale proposito già Pio XII nel 1956 al IX congresso della Società di Anestesiologia, nel suo discorso ai medici, affermava: “L’accettazione del dolore fisico non è che un modo, tra molti altri, di significare ciò che è l’essenziale, cioè: la volontà di amare Dio e di servirlo in tutte le sue cose. Nella perfezione di questa disposizione della volontà consiste anzitutto il valore della vita cristiana e il suo eroismo”.

Ma la persona umana sente di essere fatta per la vita, per cui la malattia viene avvertita come un limite ed è subita come una negatività, fino ad una sorta di schiavitù, e allora la liberazione dalla sofferenza diviene una vera e propria necessità. Ed è in questa condizione che si è sviluppata nella società una nuova cultura della qualità della vita, per cui un suo ridimensionamento ne rende insopportabile l’esistenza.

Certamente la sofferenza pone l’uomo in crisi, ed è per questo che cerca di liberarsene in ogni modo, ma può rappresentare anche un’occasione salvifica particolare in cui si è chiamati a verificare sé stessi, a mostrare il vero volto e a indicare il proprio valore.

Come affermato da Papa Francesco: “La sofferenza non è un valore in sé stesso, ma una realtà che Gesù ci insegna a vivere con l’atteggiamento giusto” e aggiunge “ci sono, infatti, modi giusti e modi sbagliati di vivere il dolore e la sofferenza”.

La malattia, pertanto, non deve essere affrontata dal Medico solamente in maniera tecnicistica con il rischio di trascurare la vicenda umana del paziente, ma al contrario in maniera personale tenendo presente che essa ha una sua storia, un ambiente in cui si sviluppa, un soggetto in cui vive. Nella persona morente, infatti, c’è anche il bisogno della compassione, “Cum Passio” che etimologicamente significa “soffrire insieme”.

Accanto al sofferente possiamo imparare ad ascoltare come sapevano fare i nostri vecchi, a comprendere, a condividere la sofferenza dell’altro, a dare sollievo e speranza, a consolare. Il modo di consolare si deve nutrire di dolcezza, non di asprezza; deve saper calmare il dolore, addolcire il bruciore, più che provocare turbamento ed angoscia.

L’ars medica, in questo, ci può dare sicuro insegnamento, così come sa usare per le piaghe urenti medicamenti lenitivi atti ad alleviare il dolore. Care to care – prendersi cura – è cosa diversa dal semplice curare, significa certamente alleviare il dolore fisico ma anche quello morale che, inevitabilmente, si accompagna al calvario della malattia.

Quanto occorre allora stare attenti, anche nel colloquio col malato, a non parlare con faciloneria o con superficialità! Anche il silenzio, alcune volte, può essere una medicina, com’anche l’uso di un linguaggio appropriato che, evitando parole forti, non generi disperazione nel sofferente.

La figura del Medico, fondamentale in tale contesto, deve sapere aiutare a morire con dignità, non abbandonando il paziente ma tenendolo per mano in questa sua ultima esperienza umana, la più ardua della propria esistenza, fedele all’insegnamento ippocratico: “Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò “.

E’ auspicabile, pertanto, che la strada da percorrere, per limitare al minimo le richieste di “suicidio assistito”, possa essere proprio quella di implementare su tutto il territorio nazionale i centri per le cure palliative in maniera tale che, almeno in ogni ospedale di provincia, i sofferenti possano usufruire di tali presidi terapeutici.