La cittadinanza: fattore di uguaglianza e inclusione

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La cittadinanza, che alle origini dello Stato moderno ha operato come fattore di uguaglianza e di inclusione annullando le vecchie differenze per nascita, si è trasformata, allorché l’immigrazione in Occidente è divenuta un fenomeno di massa, in un fattore di esclusione. La cittadinanza è uno status soggettivo che denota l’appartenenza ad una comunità, e ha come conseguenza la titolarità di una serie di diritti, riconosciuti e garantiti dalla stessa comunità. Lo status di cittadino è definito da T.H. Marshall come la «forma di uguaglianza umana fondamentale connessa con il concetto di piena appartenenza ad una comunità», il cui contenuto è dato da una serie di diritti. In una costante evoluzione verso l’uguaglianza, il contenuto della cittadinanza si è arricchito dei diritti civili, politici e sociali. Dunque, si tratta di un concetto dinamico, risultato di un processo storico di espansione dei diritti, per cui, però, resta sempre fermo il carattere dell’appartenenza ad una comunità politica.

Bobbio insegna che lo sviluppo della teoria e della prassi dei diritti dell’uomo è avvenuto essenzialmente nella direzione della loro universalizzazione e della loro moltiplicazione. Quest’ultima si basa sul rapporto fra diritti dell’uomo e società, sullo stretto nesso che corre fra mutamento sociale e nascita di nuovi diritti, nel senso che i diritti dell’uomo sono un fenomeno sociale. Ciò in quanto: è andata aumentando la qualità dei beni considerati meritevoli di essere tutelati; è stata estesa la titolarità di alcuni tipici diritti a soggetti diversi dall’uomo; l’uomo stesso non è più considerato come ente generico, o uomo in astratto, ma viene visto nella specificità o nella concretezza dei suoi diversi modi di essere nella società. Queste cause pongono in evidenza la necessità di fare riferimento a una determinata situazione sociale. In questo senso è possibile affermare che, più che di nuovi diritti, siamo in presenza di un progressivo ampliamento del concetto di persona, il quale si arricchisce di ulteriori specificità di pari passo con l’evoluzione sociale. In tale contesto, si inserisce la recente tendenza del costituzionalismo comprendente i c.d. diritti comunitari, in virtù dei quali l’individuo cessa di essere un soggetto astratto per venire inserito nel contesto sociale e culturale a cui appartiene. Il comunitarismo, diversamente, si contrappone all’individualità, all’individualismo e all’individualizzazione, spostando, drasticamente, l’attenzione dal singolo individuo alla società ed alla comunità.

Il costituzionalismo svolta versus il comunitarismo, che non si basa sul primato dell’individuo ma sulla realtà sociale alla quale il soggetto appartiene. Il comunitarismo considera gli uomini e le donne nella loro qualità di persone immerse nella società, tutelate dalle Costituzioni non come individui astratti, ma persone concrete, considerate nella loro esistenza storica e materiale. In questa fase, si assiste al passaggio da una visione atomistica ad una visione sociale della persona umana. Nell’esperienza delle Costituzioni moderne certi diritti, attribuiti letteralmente ai soli cittadini, con legge e a suon di sentenze, vengono estesi agli stranieri in quanto diritti costituzionali a vocazione universalistica. La dignità umana e tutte le libertà, per giurisprudenza costituzionale pacifica, sono riconosciute di pertinenza della persona umana in quanto tale, e anche sulla scorta della giurisprudenza internazionale, la proprietà privata e la libertà d’impresa, tenendo conto che sempre di più gli stranieri assumono iniziative di carattere imprenditoriale e dimostrano capacità di acquisizione di beni. I diritti umani hanno fatto divaricare il concetto di popolo, elemento fondante lo Stato nazionale, nel senso che il popolo non è solo quello che si lega al territorio, per nascita, per storia, per lingua. Perciò, la Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, non è protettiva del solo Stato nazionale.

A questo punto, ci si deve chiedere se una declinazione della nozione di cittadinanza come appartenenza, adeguandosi alle trasformazioni in corso, non potrebbe essere formulata utilizzando il principio di effettività, che, se rapportato alla cittadinanza esalta il principio di residenza, ma non come eccezione – com’è nell’ordinamento internazionale – quanto piuttosto come regola. Si tratta, in fondo, di un principio non certo nuovo. In questa prospettiva i cittadini sarebbero quelli che operano stabilmente in un territorio. Una cittadinanza di residenza tale da garantire uno statuto chiaro di diritti e di doveri dello straniero, mediante imputazioni progressive delle diverse situazioni giuridiche soggettive a partire proprio delle sue scelte di residenza, e in grado, pertanto, di rapportare il singolo alla pluralità di ordinamenti esistenti sul territorio. Le problematiche relative ai diritti dei cittadini sono di assoluto rilievo per il diritto costituzionale, riguardando il nuovo configurarsi delle democrazie.