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L'innocenza perduta dei giovani

La notizia di Alfie Evans, questo bimbo che, contrariamente al volere dei genitori, un tribunale inglese ha deciso che debba essere lasciato morire, apre tanti interrogativi: sono state scritte molte cose sul diritto della legge e della scienza, sulla questione morale o di fede, ma vogliamo fare una breve riflessione che vada alla radice di quanto sta avvenendo.

E’ in gioco il senso della vita e della sofferenza, la capacità che ha l’uomo di andare oltre il piacere e la soddisfazione, di saper cogliere qualcosa di più profondo nascosto nell’esistenza.

Questo fatto ci mostra che viviamo ormai in una realtà confusa e senza punti di riferimento: al punto che un Tribunale possa decidere della vita di un innocente, sostituendosi ai genitori che chiedevano di tenerlo in vita. E’ una delle conseguenze del togliere Dio dalla vita dell’uomo: l’uomo al centro di tutto significa alla fine far perdere valore anche alle cose più sacre, di per sé inviolabili, come la vita,  e ignorare l’amore umano più grande, quello dei genitori verso il proprio figlio.

Il Signore non ci ha creato in virtù di una norma giuridica, di una legge: quella legge che tante volte viene criticata e rifiutata e in questo caso invece esaltata. A che serve una vita che non produce, che sembra non aver futuro, e toglie soldi a chi se la potrebbe invece godere? Separarsi dal Signore comporta perdere il senso e il valore delle cose. Non ci sono più prospettive, non c’è più la Speranza. Si è chiuso il Cielo.

Nella Sacra Scrittura le sofferenze di Giobbe, un altro innocente, troveranno il senso con la nascita di Gesù Cristo: scoprire l’esistenza di un Dio che ci sta vicino e soffre con noi, che ci dona la Pace pur nelle grandi difficoltà, che sale sulle nostre croci e le porta insieme a noi, cambia completamente l’orizzonte.

Non si tratta quindi di un problema semplicemente etico o “morale”, ma molto più profondo. E’ il sintomo che si sta perdendo con Dio non solo il valore “inalienabile” della vita, ma anche il senso della stessa: vivere nella superficialità, per la salute e la forma fisica, per i soldi e il successo, per il piacere fine a se stesso.  

Ma dentro di noi c’è qualcosa che ci dice che non siamo nati solo per queste cose, che abbiamo bisogno di qualcosa di Eterno.

Viene in mente un altro caso, di pochi anni fa, in cui una ragazza belga di 24 anni chiese ed ottenne di porre fine alla sua vita. Colpì l’opinione pubblica non tanto per la richiesta: quante persone depresse lo pensano e anche noi, trovandoci in una situazione di disperazione o di disagio grave, potremmo pensare che sarebbe meglio smettere di soffrire? Non scandalizzava dunque la disperazione di questa povera ragazza, ma l’incapacità di una reazione da parte della società, l’incapacità di dare una risposta che apra una via diversa, una Speranza.

Questi fatti denunciano una perdita di “senso” della vita, un modo di concepire la vita come qualcosa di superficiale e in fondo utilitaristico: il malato non serve, né a sé né agli altri, dunque meglio eliminarlo.

Le prime vittime di questo modo di pensare sono proprio i giovani: con il loro comportamento spesso criticato, stanno dicendo a tutti noi che, se questa è la verità, se quello che conta sono solo i soldi, il piacere e il successo, i loro ideali di felicità, di fiducia nella bellezza della vita vengono distrutti.

Non possiamo ignorarli, dando facili “ricette” moralistiche: sono loro i primi che denunciano che non si può vivere senza Speranza, senza il Cielo.

 

mons. Antonio Interguglielmi

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